La Recensione della Fondazione Mario Luzi al Romanzo “Prima che non torni la notte”

 

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Associazione per i Beni e le Attività Culturali

Il Presidente

Fondazione Mario Luzi

Roma, 07 marzo 2018

(La recensione si riferisce solo ed esclusivamente ai testi presi in esame, oggetto della istanza di richiesta. Essa potrà, quindi, essere considerata con riferimento e limitatamente a quanto in essa citato e riscontrabile.Si  precisa  che  la  recensione  emessa,  concessa  con  licenza,  resta  di  proprietà  della Fondazione Mario Luzi la quale ne detiene la titolarità dei i diritti d’autore. L’uso scorretto della recensione od un suo abuso verrà punito a norma di legge.)

 

Recensione:

Non  sempre,  e semmai  alquanto  di rado, a una  narrazione  corrisponde una idea  precisa  delle  cose  e  dell’universo, diciamo  pure  assai  raro  è  che  la  prosa prosegua di pari passo e sullo stesso livello di un sotteso  pensiero  filosofico.

Perché  se è certamente vero che la prosa  abbia libertà di narrazione  e tale sia la sua  priorità,  anche  nel senso  di  una  lievità  di  scrittura  e dunque   di lettura,  è parimenti  fondato  il fatto che la medesima  narrazione, priva di un suo sotto  testo, senza  cioè un’anima  che  ci parla da dentro,  resti una inerte  cronaca  senza  alcuna capacità di fascinazione e comunicativa.

Eppure questa  vocazione  al senso,  alla sua indagine  e suscitazione,  avere e consentire una visione interpretativa e pensante  della realtà, è un connotato imprescindibile, misura  esatta,  elemento   costitutivo  e spartiacque  fra l’essere  e il non essere, fra la storia e l’accadimento, il poetico e il vacuo.

Così parrebbe  di vedere in questo libro, se solo ci si appresta,  molti e diversi transiti,   ugualmente   accomunati  da  un   fedele  sodalizio   di  scrittura,   una   sola direzione   nella  quale  si  incammina   e  orienta   tutto   l’appassionante  romanzo  di questo libro.

Dunque la dialettica, scambievole  fra testo e sotto  testo, è qui, per sua stessa natura, ramificazione  piuttosto fitta e articolata, scavata in una sotterranea via di percorrenza, in  cui la parola  è una  lenta  sgocciolatura, il sedimento di roccia  che dall’inconscio pesca  le  sue  più  estreme  profondità di  sottosuolo, e  poi  decanta, filtra, si drena  e arricchisce la sua composizione minerale, fino ad aprirsi all’esterno e alla vista: lo zampillo d’acqua  sorgiva e fonte scrosciante.

L’opera è costellata  da una  miriade di elementi  indiziati  che l’autore  dissipa nei suoi  versi  e  fraseggio,  ed  è  anche  la  forza  portante  di  queste   parole  che puntellano, strutturano  e  innervano, con  i  suoi  architravi  e  volute  un  impianto estetico  relativamente agile e però anche così poderoso e imponente.

Prima  di ogni altra cosa il titolo che si affretta, nella sua subitanea  dizione,  a fissarsi  nello  spazio  e  nel  tempo  di  un’urgenza impellente   e  precipitosa   da  cui guardarsi: “Prima che non torni la notte”, appunto.

E  in  lui,  nell’ambiguità   del  suo  costrutto,  nelle  suggestioni   smangiate   e indefinite,  nel volto  scontornato che ne ricaviamo, una appannata visione ci coglie, quasi di non esser pronti  o non fare a tempo,  nell’esiguità di spazio in cui siamo, nel predisporre  ogni  atto  e  noi  stessi:  rassettarci   e  metterci   in  ordine,   presentarci degnamente  e  come   si  conviene,   a  un  illustre  ospite,   un  esimio   sconosciuto,  prossimo   di lì a  poco,  qualche  istante  prima  che  non  torni  la  notte:  il giorno, dunque, con qualche probabilità.

E che non  ci sia chiara, a noi lettori, questa entità così prossima  di cui si dice, in egual misura non è altrettanto definito  il senso delle cose e della vita, che pure ci prende  e di cui ampiamente scriviamo o ragioniamo,  di cui ci pare di aver afferrato tutto e in ultimo colto veramente poco.

È sempre  un  comune  ragionare  attorno il medesimo   Fuoco  della controversia (Luzi) che per quanto  indefinito, ci definisce tuttavia  appieno,  per intero,  e poi compiutamente, ma noi non definiamo  lei, inarrivabile vita.

Non  di meno  ciò innesca  una dialettica, un doppio  binario, su cui procede  la nostra  persona   a  fasi  alterne,  su  fronti  avversi,  scambievoli  contro altari, luci  e riflessi, ombre  e presenze: io e l’altro da me, io e l’altro me, io è l’altro in me.

Le   appassionate   letture    filosofiche   e   letterarie,   dai   citati   Leopardi    e Nietzsche,  così come di taluni filosofi contemporanei e psicanalisti, contribuiscono a  formare  il carattere  di quest’opera e  tanto  più il suo  autore  Antonio Onorato, come lui stesso riferisce.

L’osservazione del  reale, dunque  la sua  trascrizione,  come  del  romanzo in parola,  è  viatico,  linea  di  percorrenza  e  congiunzione fra  l’universo   e la  nostra persona, fra l’essere e l’io che lo abita.

Non  si tratta,  a tal riguardo,  di costruire  una nuova  mitologia  o simbolismi, alcun codice  comunicativo o allegorico, nessun  altare o strani ammennicoli, è solo l’ascolto  di una realtà che ci parla come lascia chiaramente intendere l’autore:

“C’è un’apertura di senso tra noi  e le cose ed è un senso che ha bisogno inizialmente del cuore per essere colto”.

Se anche  parrebbe – a esempio  nelle molte  descrizioni,  negli spazi aperti, in campo   libero,  nelle  visioni  cui  Onorato  ci  apre  a  ventaglio   –  che  vi  fosse  la vocazione  o, anche solo, la velleità a un veste figurata o iconografica,  plastica della realtà, si dovrà da ultimo cedere a un più convincente equo statuto: l’universo  non è causa  di  una  letterarietà   ma  è  la  parola,  neppure   la  lettera,  che  si  appresta   a esplorarla,  non  è cioè  l’habitat  innaturale  e verosimile  della  scrittura,  ma  l’icona misteriosa  e indecifrabile  del mondo che, attraverso  di noi, prova  a essere detta  e nel dirlo, nel non  riuscirvi, scopriamo una parte incompiuta di noi, – nostro  tramite- dell’esistenza  che ci sottende:

“Guardo la rosa che ho preso per Josh.  L’ho messa  accanto alle  sue ceneri, sul comodino,   oggi sarebbe  stato  il suo compleanno. Fratello  mio, quanto mi manchi.  La rosa  è  screziata,  e, nel linguaggio dei fiori,  è il segno  di un amore tradito.  Era l’unica  bella rosa rimasta ieri sera  nel chiosco del fioraio poco distante  da casa mia,  ed è ciò che vale. Non ci siamo mai traditi, di te sono sicuro, di me spero d’esserti stato leale. Come avresti visto questa rosa? Come la vedo io? Non è importante per la verità.

E se anche vi è, come pare, un nesso e una interdipendenza, strettissima,  una sorta  di  familiare  discendenza, fra  la  parola,  la  cosa  e  il suo  evocato   simbolo, laddove  ciò accade, è solo una strumentalità dell’essere, una diversa manifestazione o timbro  della medesima  sostanza,  l’eco  di una  sola voce  che  profetizza  la stessa vita, ne cerca  lo svelamento  e, più di ogni  altra cosa,  ne attende  i primi  passi, il magistero e apprendistato d’esistere:

“La poesia cos’è. Qualcosa che (filosofi  odiano. Non tutti. Nietzsche fu un poeta. Leopardi fu un filosofo. La poesia  è il posto in cui l’Io non ha controllo, travolto dalla congiunzione degli opposti. Il pensiero è superfluo,  in fondo. Per questo ho deciso di non avere figli. È qualcosa  che non potrei mai fare: mettere al mondo  un figlio.  Posso accettare gli altri,  non i miei.

Molti sono  gli spunti, le riflessioni, gli elementi  chiari e netti, che possono essere  rivenuti,  raccolti  nella fertile e prolifica scrittura  di Antonio  Onorato, che adopera  questo  romanzo  come un grande  fiume, una rete viaria per farvi scorrere una fiumana di pensieri, interrogativi, fra le due estreme sponde da conciliare.

Il prologo  del volume  denuncia,  apertis  verbis, tutti i transiti, i tracciati, le mappature   seguite  idealmente   dal  romanzo   che,  senza   nulla  togliere  alla  sua narrazione,  si serve di lei, e in realtà parla di questa vicenda e dei suoi protagonisti per  dirci ben  altro, si avvale nobilmente,  come  forse la vita di noi  per compiere questo inedito viaggio verso la conoscenza  e la verità:

(Tra Io e l’altro c’è una differenza/ identità.  Il legno che si ritrova violino. L’Io è un altro. Questo è il vero motivo  per cui non trovo una possibilità d’arrivare al dunque?  Josh  aveva il potere di mettermi in contatto  col dentro. Lo stesso accadeva con Sara.  Con  entrambi  c’era un rapporto di differenza/ identità.  Rapportandomi  con loro, mi rapportavo  con la mia anima,  per gradi non sempre allo  stesso modo.  Non era  come lo  era per Rimbaud,  perché la mia autocoscienza non perdeva totalmente la propria identità,  ed era anche altro da sé, non entrava in confusione, era in simbiosi.

La vicenda di questo  romanzo dunque,  per quanto  centrale, appare  piuttosto relativa,  o  meglio  guadagna  la scena  spinta  da  una  responsabilità morale  che  gli deriva dall’essere  un tramite,  mediare  fra realtà e idealità, fra la parola  e l’ascolto  e molto altro indistricabile groviglio, che più che risolversi potrà adoperarsi per noi rimanendo nel suo naturale stadio e del tutto indistricato:

“Rimbaud cercava il cambiamento   e la sua poesia  era una poesia in divenire.  “Se l’ottone  si sveglia tromba  non è affatto colpa sua’: Se qualcosa, o meglio qualcuno,  consapevolmente si ritrova a essere qualcun  altro, egli diviene. E non è sua colpa. L’Io, come un dio, osserva se stesso e si fa ascoltatore di sé.”

Il romanzo è infatti  – sia nella sua stesura  più superficiale  e piana, quanto  in altri  livelli di  maggiore  profondità  –  sostanzialmente  privo  di  approdo,  aperto, sospeso  e senza una rettificata  unilateralità – opera in molte direzioni, in transito  e in  fieri  -; ecco  dunque  la  ragione  e  anche  la valenza  di  forme  mai  ultimative  e sempre  interrogate: è il pungolo  che  sospinge,  ci stana  e fa sopravanzare fin sul limitare delle cose, suo estremo  margine:

 

“Dio e il nulla. Io e  un altro. Io è l’altro.  Dio è il nulla. Questo calcolo incessante finirà  per uccidermi. Se così fosse  vorrebbe dire  che  Dio non  è morto?  Se un albero  cade in una foresta,   e nessuno lo  sente, fa rumore? Credo di non essere pronto  ad accettare la realtà così come essa  si presenta.

Ripercorrendo la narrazione  per punti, intesi i capitoli, ci si imbatte  nei titulos che, causa l’obbligo  di brevità, sono  resi in forme  poetiche,  con  una parola  che si esercita  nel suo  potenziale  evocativo,  come  in vero  vi è più estesamente in molto altri passaggi del libro, sia nelle forme dirette che indiretto, vale a dire sia nella aggettivazione della scrittura, quanto  nelle arie che sono  nell’animo  dei protagonisti sulla  scena,  o  anche  di quel  sentire  che  è suscitato  dalla natura,  dall’ascolto,  dal silenzio,  dalle  nature  morte  – tutto  compresente e  partecipato –  magistralmente dipinte  dal Antonio  Onorato; anche  in questi  residuali spazi d’esistenza  si infla la poesia, che pervade  lo spazio  come  l’aria che fluisce in ogni  possibile  fessura e in noi, sottopelle,  senza che neppure  lo sappiamo,  ma destinati, un giorno  o l’altro,  a scoprirlo   per  i  molti   accadimenti   o  accidenti   che   toccano   dal  vivo  la  nostra esistenza, e la perturbano, per darle altra forma, nuova vita, l’essere: che ancora  non sappiamo  cosa sia, ma verso cui sentiamo  una naturale urgenza e necessità salvifica; e di ciò si affanna  e premura  il romanzo, come  fosse l’ultima  parola possibile,  una sua esausta sillaba, un messaggio di speranza  e lei affidato, un appiglio, uno scorcio d’orizzonte, una Primizie del deserto (Luzi).

 

fto  Il Presidente Fondazione Mario Luzi

Mattia Leombruno