Prima che non torni la notte (III capitolo)

CAPITOLO III

 

“La cenere e l’ingiustizia”

 

Un giovane uomo se ne stava seduto da ore a un tavolino fuori dal bar caffè, in una delle zone della periferia est di Roma. Sorseggiò un bicchiere di  Campari mescolato a gin e ogni tanto era costretto a masticare qualche pezzettino di ghiaccio che regolarmente s’intrappolava tra i denti. Lo sguardo fisso su un portone in legno, verde scuro, di una palazzina non vecchissima, ma in degrado.

Accanto al portone sporgeva l’immondizia da vecchi cassonetti metallici depositati vicino il marciapiede. Dopo un’ora il giovane ebbe consumato due  Campari con gin e uno con soda. Udì il portone aprirsi e richiudersi immediatamente alle spalle d’un uomo alto e grasso, non più giovane. Si rizzò e pagò anche l’ultima consumazione, poi il giovane seguì l’uomo. L’uomo che gli stava davanti ogni tanto strofinava i palmi delle mani sugli jeans sudici che indossava. Dovevano sudare molto quelle mani. Il giovane dimezzò la distanza, il suo passo era svelto e, nel ridurre la lontananza, avvertì di poter toccare l’odore dell’uomo. Odore di fogna.

Il tizio si diresse verso una stradina stretta e poco frequentata, entrò in un cortile e si fermò proprio di fronte alla porta di una baracca in legno, sigillata da un lucchetto. Il giovane era alle spalle, poco distante, senza fiatare. Si bloccò, e rimase a osservarlo celato dall’angolo dell’edificio. L’uomo aprì il lucchetto e spalancò la porta, entrando nella baracca. Doveva fungere da magazzino pieno di roba vecchia, cianfrusaglie.

Da lì tirò fuori un motorino impolverato e mal ridotto; lo depositò vicino alla porta di legno e si mise a ripulirlo con uno straccio vecchio. Il giovane si accostò ancor di più alle spalle dell’uomo, senza far rumore, e una volta vicinissimo lo colpì con una spessa barra di metallo delle dimensioni di un martello. L’uomo cadde in ginocchio, portando le grosse mani sudaticce alla nuca, poi, ancora cosciente, voltò la testa verso il giovane.

– Chi cazzo sei? Scemo! Vuoi uccidermi? – urlò con gli occhi sgranati per il dolore.

– Sì, vorrei ucciderti– rispose il giovane.

– Non ho soldi. Sono un poveraccio come te. Non ce l’ho i soldi per una dose. Devo trovarmi un lavoro, sono stato licenziato.

– Non voglio i tuoi soldi e non sono un drogato.

– Allora che cazzo vuoi?

– Lo chiedi? Non riesci proprio a immaginartelo?

– Non ti capisco. Non ho fatto niente. Ho famiglia e non ho più un lavoro. Sono un poveraccio.

Davide lo colpì con un calcio all’altezza del mento e vide schizzare nell’aria sangue proveniente dalle labbra.

– Perché avresti perso il lavoro?

– Mi hanno ritirato la patente – disse l’uomo, tamponando il labbro superiore con lo straccio – Senza patente non c’era più un lavoro per me.

– Non hai rimorso per quella ragazza? Per tutte le vite che hai rovinato? Non ci pensi? – di rabbia gli partì un altro calcio, che affondò al costato.

L’uomo oscillò, ma rimase in ginocchio, non cadde. Lo guardò piangendo.

– Non volevo. Dio sa che non volevo. E’ stato un incidente. Ma tu chi cazzo sei?

– Amavo Sara e me l’hai portata via. Tu, uno schifoso, infimo, insignificante grasso uomo.

– Ho dei figli.

– Posso solo compatirli, anzi, posso solo aiutarli privandoli di un padre schifoso come te.

– Vuoi uccidermi? Ti prego, chi crescerà i miei figli? La legge non ha potuto punirmi, tu chi saresti per farlo?

– Una legge ingiusta non può essere una legge. Sì, voglio ucciderti e lo farò con grande soddisfazione.

– Ti prego, sono innocente, credimi.

– Come puoi asserire una cosa del genere? – ribatté rabbioso Davide. – non senti proprio alcun peso?

– No. Non lo sento – a questo punto il tono dell’uomo divenne più tranquillo, senza essere interrotto da alcun pianto. – Sono innocente e devi credermi, rifletti.

– Rifletti? Cosa stai dicendo?

– Sì. Ragiona. Ora che tu stai facendo quel che fai, dovrai andare fino in fondo. Dovrai annientarmi. Se non mi ucciderai, ti rovinerò in ogni caso. Sì. Potrò denunciarti per aggressione aggravata o tentato omicidio e tu, con le tue ragioni, verrai punito. Andrai in carcere, forse agli arresti domiciliari, ma sarai distrutto per sempre. Perché tu non sei come me, non sei un innocente. Solo se potrai uccidermi, ora, sarai veramente un innocente. Rammenta, è cosa vecchia ormai, l’assassino è sempre innocente.

Davide sollevò la barra d’acciaio in alto e si preparò a colpirlo con tutta la forza possibile, non riusciva più ad ascoltarlo.

A mezzo millimetro dalla fronte la mano parve incontrare un muro invisibile, impenetrabile. Riprovò e nuovamente fu così. Non arrivava a sferrare quel colpo che avrebbe dovuto finire l’uomo e riportare equilibrio, giustizia. L’altro, guardandolo negli occhi, sorrise e sentenziò:

– Lo vedi? Tu non sei innocente. Su di te grava il “non devi”, che vuol dire “non puoi”.

Davide allentò la mano e la barra scivolò a terra, si portò le mani in faccia, iniziando a lamentarsi.

– Ora sei tu a frignare. – continuò l’uomo grasso e sudaticcio. – Sei nelle mie mani e io non avrò pietà di te. Ti sei rovinato.

– Maledetto me! Maledetto me! – Maledicendosi, Davide cadde in ginocchio, in  balìa di un vortice.

Si destò, mentre gli parve di soffocare nel suo cuscino, in quella stessa stanza dove i suoi sogni di adolescente avevano trovato spazio. La stanza condivisa con Sara nei loro momenti più intimi. Era interamente in un bagno di sudore, consapevole e colpevole di avere davanti a sé un possibile futuro.

Quella mattina Davide dovette recarsi ad un appuntamento che non poteva disattendere. Bussò alla porta dello studio. Dall’altra parte la voce di un uomo non più giovane lo invitò a entrare.

– Venga Davide, l’aspettavo.

Una grande finestra sparava luce alle spalle dell’uomo in giacca di velluto nero a piccole coste. Era seduto con i gomiti poggiati su una scrivania antica, restaurata, ma con i segni del tempo ben visibili. L’uomo doveva aver superato da poco la sessantina. Il tono era cordiale, i lineamenti del viso distesi, gli occhi accesi, intelligenti. Alla sua sinistra si ergeva una grande massiccia libreria in quercia, un pezzo di antiquariato che esponeva libri di autori importanti, filosofi, scienziati, psicologi e psicanalisti.

– Prego, si accomodi! – disse l’uomo, indicando con l’indice della mano sinistra la poltrona in pelle nera di fronte alla scrivania. – Il prof. Costanzo mi ha parlato a lungo di lei – continuò l’uomo, con tono accattivante. – So che ha bisogno di un appoggio in questo momento. Capita. Lei è giovane, brillante e non deve lasciarsi travolgere dalle avversità che le si sono poste innanzi, e che la sua sensibilità non permette di valutare razionalmente.

Davide rimase muto. Si sentiva da un lato rinfrancato dal tono comprensivo dell’uomo, ma dall’altro lato avvertiva una sorta di rimprovero per un’aggiudicata mancanza: non aver saputo, o non essere stato in grado, di affrontare emotivamente le avversità. Questo pensò.

– Non la sto valutando, Davide, è un sollecito per indurla ad aprirsi – si affrettò ad aggiungere per rassicurarlo.

– Grazie Professore. Non saprei proprio da dove iniziare, per la verità.

– Inizi da quel che gli viene in mente, senza timore alcuno.

– Avverto un grande vuoto dentro. Una perdita di senso. Ho l’impressione che questa vita non abbia alcun motivo di essere. Spesso mi capita di osservare la gente che si affanna a fare, a voler vivere. Ho pietà di loro e di me. Più pietà per loro, perché apparentemente inconsapevoli della catastrofe.

– Lei, quindi, ritiene di avere una percezione diversa della realtà rispetto alle comuni interpretazioni di pensiero?

– Sì, ma non deve pensare che il mio sia un delirio di onnipotenza.

– Non l’ho detto, Davide. Mi spieghi: in cosa consiste la sua visione della realtà? E di quale catastrofe non ci saremmo accorti?

– È un incubo dal quale c’è solo una possibilità d’uscita.

– Lo crede davvero? Da sempre o da qualche tempo?

– Prima di Sara, intende? Al momento, tale visione la avverto fortemente, ma probabilmente si tratta di qualcosa che covava dentro di me.

– Sì, ovviamente mi è stato riferito del suo lutto. Dell’infelice disgrazia. –  annuì con la testa, affinché non smettesse di confidarsi.

– Prima di Sara, forse, in una certa misura c’era rassegnazione in me. O, meglio, una forma di accettazione della scontata tragicità della morte, anche perché avvertivo tutto così distante, come non dovesse toccarmi, come ci fosse tempo. Poi auguravo a me stesso che in quel lontano giorno sarei stato pronto.

– E così credo non sarà mai, nonostante gli sforzi che faremo – concluse il professore. – Saprebbe dirmi di più riguardo cosa intende per “suo incubo?”

– Ho ricevuto il battesimo, ma non sono religioso. Il mondo mi sembra apparire più un luogo dove convivono predatori e prede, che a loro volta possiamo considerare come predatori più deboli. Ognuno cerca di imporsi all’altro, ognuno desidera necessariamente affermare la propria indiscussa volontà utilizzando ogni possibile espediente; ad esempio: la persuasione, il mezzo attualmente più diffuso, data l’esistenza delle istituzioni e delle leggi.

– Quindi, per lei la vita è fondamentalmente violenza, morte; una perenne “Bellum omnium contra omnes”, una lotta eterna di tutti contro tutti?

– Non so se intendo proprio ciò, ma la realtà che vedo sembra avvicinarsi a questa conclusione.

– Lei, così giovane, presume di aver compreso l’essenza della vita?

– Professore, se pone la questione su questo piano, certamente le risulterò un egocentrico presuntuoso.

– Sto cercando di appurare quanto le letture e le ricerche filosofiche abbiano contribuito a promuovere questi inusuali pensieri.

– Non credo. Ho sempre riflettuto su questo genere di argomenti, prima che leggessi Nietzsche o Schopenhauer. Anzi, forse sarà per questo stesso motivo che la mia interpretazione dei loro scritti è stata emotivamente sentita.

– Lei mi vede come un suo nemico? Una specie di predatore?

– No, di certo.

– Allora c’è speranza! – il professore rise pronunciando quelle parole e Davide si sentì a disagio, preso in giro.

– È possibile che l’educazione impartita dai suoi genitori abbia avuto un suo peso?

– Non saprei, per la verità. I miei sono persone cosiddette normali. Forse sì, se ci rifletto sopra: la loro vita è stata una visibile lotta per la sopravvivenza. Spesso li prendo in giro dicendogli che hanno ereditato quella insana, generosa abitudine per lo spirito di sacrificio.

– Ha detto di non essere religioso. Se, allora, le domando: Dio?

– Potrei rispondere che, a un certo punto, è morto, per rimanere nel contesto filosofico. Il significato è chiaro, ma non me la sento di affermare ciò. Certamente, vivo una profonda contraddizione. Mi scorgo in un mondo che, per forza di cose, ti sottrae Dio e, conseguentemente, sono cosciente di non poter prestare fede nelle religioni che, come asseriva, a mio avviso giustamente, Oscar Wilde, sono solo opinioni. Provo a capire. E, curiosamente, se mi trovo in difficoltà mi sento obbligato a rivolgermi a Lui, come fossi un credente, attribuendogli ogni colpa per quel che capita. Mi viene di immaginare che sia questo sentimento di impotenza a evocarlo, in tutti noi. In sostanza, sarebbe come se desiderassi rifuggire dalle responsabilità che comprovano l’esistenza del libero arbitrio, rimettendomi nelle  sue mani col risultato certo d’essere rigettato, rifiutato e ricondotto nuovamente di fronte alle decisioni umane che, per logica, lo negano.

– Quindi, pensa Dio in contraddizione con la libertà d’agire dell’uomo?

– Sembra che noi occidentali diamo per assodato che la creatività sia una prerogativa più umana che divina.

– Per cui, il concetto giudaico-cristiano di creatio ex nihilo, secondo Lei, non è utile a sanare la contraddizione tra Dio e il divenire?

– È un espediente che non convince. Il prima e il dopo di ogni esistenza rimane stabilmente in mezzo al nulla.

– Va bene, lasciamo stare, per ora, la cosa. Le va di raccontarmi qualcosa della sua infanzia?

– È certo che finirei per dirle cose vere? – chiese Davide con un eccesso di disinvoltura che non piacque del tutto al professore.

– È certo che quella sarebbe la sua realtà, ed è quella che conta alla fine, o no? – gli rispose sorridendo l’uomo.

Davide rimase zitto. Desiderava aprirsi, era un’esperienza nuova e si avvertiva più leggero.

– Sì, va bene – e aggiunse, rivolto a se stesso: – andiamo avanti, tornando indietro.

Ci fu un minuto di silenzio dentro il quale i due si scambiarono degli sguardi. Il professore lo rassicurò con un sorriso.

– C’è sempre la figura di mio nonno che mi torna alla mente, ripensandomi bambino. Mi piaceva essere sollevato dalle sue forti braccia e sospinto in aria fino a raggiungere il lampadario, così da poter toccare i cristalli che riflettevano la luce rossa artificiale delle lampadine. Posso ancora avvertire quel gran calore e la sensazione che ridessimo mentre ciò accadeva.

– E’ certo che sia veramente un suo ricordo?

– No, forse si tratta di una situazione ritratta in una foto scattata quand’ero piccolo e che mia madre mi avrà fatto vedere chissà quante volte. E ora immagino di averla rammentata.

– Lei ha il presentimento di averla vissuta questa situazione?

– Sì, come tante altre, ma non di averne colto il momento; esso è rimasto esterno a me, come osservassi una rappresentazione che non mi riguarda completamente. È una percezione strana e deludente.

– Questi frammenti di pensiero non le provocano emozioni? Intuisce se possano risultare legati a particolari eventi emozionali?

– Assolutamente. Per esterno a me non intendo distaccati da me. Sono indubbiamente i miei ricordi, ma continuo ad avere la netta, lucida sensazione che siano destinati ad abbandonarmi, per una certa incapacità di appropriarmene. Per cui, ora, o in qualsiasi altro momento, potrebbero sfuggire e svanire.

– Lei sa certamente, Davide, che ricordare non significa semplicemente tornare al passato dopo aver impressionato il tutto all’interno della ragione, che, tra l’altro, incessantemente elabora; ma significa richiamare all’istante presente quegli episodi della nostra vita che sono legati a esperienze emotive, ai nostri sentimenti. Mi pare che questo, in  Lei, avvenga con forza e che, piuttosto, non lo ritenga sufficiente. Proseguendo nelle sue impressioni, se dovesse raffigurarsi qualcosa di antitetico al ricordo, cosa le verrebbe in mente, nell’immediato?

– La cenere.

– Cenere? E perché mai?

– E’ sempre legato a mio nonno.

– Interessante, e in che senso?

– Il nonno era nato in Germania, la sua famiglia rimase coinvolta durante il bombardamento di Dresda nella seconda guerra mondiale. Sopravvisse per puro caso, rimanendo intrappolato all’interno di una grossa buca che si era aperta sotto il pavimento della sua stanza e per una trave che lo riparò dai crolli che susseguirono, fino a che non intervenne il destino. Un ciclone si formò per la fortissima corrente d’aria provocata proprio dal pesante bombardamento, trascinando via la trave e liberandolo illeso. La casa era distrutta, come gran parte della città. Dei componenti della sua famiglia non rimase che cenere. Cancellati.

– È terrificante!

– Sia per il trauma sia per la volontà di dimenticare, perdette per lungo tempo i ricordi allacciati ai genitori e ai suoi fratelli. Solo quando non fu più lucido, vuoi per l’età che per l’approssimarsi della morte, la memoria, in lui, riemerse con forza.

– Mi dispiace.

– Come non bastasse, un amico qualche tempo fa assistette alla cremazione della madre, rivelandomi le sue impressioni. Sentiva la necessità di condividerle. Confidò che percepì veramente la morte di lei quando giunse a termine quell’atto. Le ceneri non sono ceneri, come abbiamo imparato dai film americani, sono più simili a sassolini. Da quel giorno, mi spiegò: “Quando guardo negli occhi chiunque, sono portato a credere di aver a che fare con della cenere. Anche adesso che ti parlo”. Devo essere rimasto impressionato dal suo coinvolgimento emotivo.

– Secondo Lei, la cenere è il nulla al quale siamo destinati.

– Sì. Tra noi e la cenere c’è il nulla a cui torniamo.

– Davide, la conversazione ha assunto connotati stimolanti. Purtroppo, ho degli impegni a cui non posso sottrarmi nemmeno volendo. Non potremmo rivederci la prossima settimana, alla stessa ora?

– Certo. Grazie.

– Sa che sono un professore di filosofia e non uno psicoanalista, però confido che i miei suggerimenti le torneranno utili. Ha tutte le risorse necessarie per risollevarsi con un piccolo sostegno, forse, il mio. Piuttosto, avrei piacere che non gettasse via il suo percorso universitario e che giunga fino in fondo. Arrivederci Davide.

Il professore distese la mano e diede una buona stretta al giovane, che uscì velocemente dallo studio come desiderasse togliere un disturbo.

Davide non sapeva cosa pensare: da un lato si sentiva meglio, dall’altro non intuiva dove lo avrebbe condotto quella strada intessuta. È indubbio che non esiste modo di fermarsi una volta che ci si incammina; anzi, pur restando immobili, non ci si ferma lo stesso, perché le cose intorno a noi, innegabilmente, non restano fisse e, quindi, ci cambiano nostro malgrado.

Quella notte stessa Davide si sforzò di restare sveglio. Circondato da una inquietudine incomprensibile, era certo che se si fosse assopito avrebbe  subìto una sorta di incubo.

A metà del primo mattino cedette e le palpebre degli occhi caddero.

– Ciao, ti aspettavo.

– Ciao Sara. Come stai?

– Così. Mi manchi.

– Anche tu, da morire direi. È bello il mare e questo sole è stranamente luminoso. Hai tutte le caratteristiche di una splendida sirena.

– Lo sai che i delfini posseggono le nostre stesse emozioni e provano sentimenti?

– Perché me lo dici?

–Sarà importante per qualcuno, immagino. Una volta sembrava t’importassero queste affermazioni.

– Davvero? Non ne comprendo il motivo.

– Davide, credi che sia realmente diventata cenere, ora? E che mi trovi in mezzo al nulla?

– Non riesco a considerare questa cosa, soprattutto ora che mi guardi negli occhi.

– Fammi una promessa.

– Sì, certo.

– Quando avrai una figlia, chiamala Sara.

– Io non avrò mai una figlia. Non desidero figli.

– Perché?

– Se te lo dicessi, capiresti?

– Prova. Non sarà mica legato alla questione della cenere?

– Più o meno, Sara, se non pensassi che sei una proiezione della mia mente, un sogno, realmente sarei convinto di parlare con te.

– Pensa ciò che vuoi, siamo qui insieme. Malgrado ciò che credi, voglio lasciarti qualcosa su cui riflettere.

Dopo quelle parole iniziarono a cadere gocce d’acqua, nonostante il cielo azzurro e un sole giallo all’orizzonte.

– Guarda alle tue spalle. – disse Sara.

Davide si voltò e vide comparire una policromia.

– Cosa sappiamo sugli arcobaleni? – chiese Sara. – Sai come nascono?

– Deve esserci il sole e deve esserci la pioggia.

– E poi?

– Che vuoi dire?

– Davide, occorre la cosa più ovvia: ci vogliono degli occhi che siano in grado di osservare. Ti dirò di più, per quanto esso ti possa sembrare reale, per rivelarsi ha bisogno di te o di me. E ognuno di noi non può che vedere che il suo arcobaleno.

– Cosa significa?

Sara lo salutò con la mano, si girò improvvisamente e si tuffò in un mare profondo, allontanandosi.

Davide spalancò le palpebre, la luce già filtrava dalle feritoie della persiana e riflettendo sul vetro della finestra illuminava la stanza. Era mattina. Cercò di esclamare qualcosa, ma il pensare a lei gli bloccava la voce; percepì il profondo dolore di sempre, l’unico punto fermo.

Pensò: “Se Dio esiste, e ha provato un dolore come il mio, allora è stata una necessità la decisione di creare l’uomo”.

Gli venne da ridere intuendo quanto fosse penosamente blasfema la sua teoria. “Forse queste idee sono solo l’ulteriore conferma di quanto possa essere profondamente cristiano”. Meditò.

Qualcuno suonò al campanello della porta. La madre di Davide andò ad aprire e si trovò di fronte Marco.

– Entra, come stai?

– Insomma…

– Immagino. Avverto subito Davide che sei venuto a trovarlo.

– Grazie, signora. – Marco aspettò qualche minuto in camera da pranzo.

La casa non era molto grande ed era distribuita su due livelli. La stanza di Davide si trovava al piano superiore. Poco dopo udì dei passi dalla scala con una cadenza veloce e non poteva che trattarsi di Davide che scendeva.

Si alzò dalla sedia dove si era accomodato e andò incontro all’amico, abbracciandolo.

– Ciao, come va. – domandò Marco.

– Ora che ti vedo, meglio.

– Vale anche per me.

– Ti ho cercato al telefono cellulare, ho telefonato in palestra ed eri irreperibile.

– Per la verità non mi andava di parlare con nessuno e ho eluso ogni impegno per qualche giorno, ho trovato rifugio a casa dei miei zii, a Francavilla. Ho occupato il tempo passeggiando sulla spiaggia da solo. Ho contemplato il mare. Non ce la facevo a stare qui a Roma a vedere mia madre struggersi. La mia famiglia è distrutta. Sto meditando di arruolarmi nel corpo forestale, vorrei frequentare anche un corso di elicotterista e magari contribuire a salvare vite. Che ne dici?

– Come ti è venuta questa idea?

– Ci riflettevo da tempo. Sono insoddisfatto della vita che faccio. Un amico già da un anno è stabilmente integrato nel gruppo sportivo del corpo forestale; va beh, lui è campione di judo.

– Beh, che dire, bello.

– Tu che mi racconti?

– Sto preparando la tesi di laurea. Si intitola Prometeo dona il futuro agli uomini affinché si allontanino dagli Dei.

– Non desidero che mi spieghi nulla, ho già poche idee e spesso confuse. Davide rise. Era parecchio tempo che non gli veniva di ridere.

– Ok, non aggiungerò altro, allora.

– Ti va di vedere un filmone, stasera? All’Adriano danno Braveheart con Mel Gibson. Film storico.

– Ok, a te va di rimanere a pranzo?

– Se prima andiamo a farci una corsetta, senz’altro. Ho la borsa per cambiarmi in macchina, vado a prenderla.

– Va bene.

 

Con ansia Davide bussò alla porta del professore e non attese nemmeno che rispondesse, la aprì ed entrò nello studio.

– Buonasera, scusi se sono in anticipo.

– Non si preoccupi, sono pochi minuti. Allora? Come ha passato questi giorni?

– Come in un limbo.

– Intende in una situazione sospesa?

– Certamente.

– Chiedevo, perché sa, è curioso come si utilizzino normalmente parole che hanno a che fare col sacro.

– Come?

– Il limbo, per i cristiani, è il posto destinato alle anime di coloro che non hanno ricevuto il battesimo e sono morti senza aver lavato il peccato originale.

Davide rise.

– Sono battezzato, ricorda? – ribatté con tono ironico al professore.

– Era semplicemente un vezzo da psicoterapeuta mancato. Aggiungerei, per quel che mi riguarda, fortunatamente. Non invidio chi esercita questa professione. Lei si trova bene a confidarsi col sottoscritto?

– Non mi sarei mai aperto né con un prete né con uno psicoterapeuta.

– Perché mai?

– Perché entrambi, sono dei credenti. Hanno abbracciato una fede. Ora ho bisogno di chi dubita, ho bisogno di Lei. Il prof. Costanzo ha avuto un’idea geniale. Non c’è che dire!

– Sono lusingato, ma chi le assicura che anche il sottoscritto non abbia una fede?

– Chi abbraccia la filosofia si pone domande impossibili.

Il professore guardò Davide negli occhi senza aggiungere nulla. Accennò un sorriso e riprese.

– Ha fatto qualche sogno in questi giorni che ricorda in modo particolare?

–  Sì, ho sognato Sara che mi chiedeva se credessi nell’idea che fosse divenuta cenere.

– Cosa le ha risposto?

– Che non sarebbe stato possibile, per me, pensarla cenere.

– Per cui si è forse ricreduto riguardo al discorso che abbiamo fatto la scorsa settimana?

– Non saprei, nel sogno mi sono ricreduto.

– In realtà?

– Sarei propenso a ripensarci, ma, per il momento, rimango fermo su questa idea. Amavo e amo Sara. Il sentimento per lei è vivo, per cui è come se fosse ancora viva.

– Non c’è contraddizione in quel che dice?

– No, l’idea di Sara è viva, non è stata rigettata o annientata dal mio pensiero. Nel mondo reale sono consapevole che non è, né sarà più viva.

– Sara da parte sua è stata collocata, comunque, in mezzo al nulla, ma lasciamo correre la cosa, per ora. Lei afferma l’esistenza di un mondo reale e uno apparente o ideale. Qual è la realtà e qual è l’apparenza?

Davide per la prima volta si sentì confuso. Sembrava tutto chiaro, semplice, almeno in altri momenti; ma ora non riusciva a disbrigare la matassa. Perché?

– La realtà è il divenire – disse Davide.

– Quindi, la realtà è cenere!

– Ovviamente!

– La realtà è un mondo di predatori?

– Anche.

– Se così fosse, cos’è l’amore?

– Volontà di vita. Una maschera.

– Una maschera, di cosa?

– Della verità. Della volontà di sopraffazione, che vuole persuaderci della propria mansuetudine.

– Ne è certo?

– No, non ne sono certo, come potrei esserlo?

– Il suo amore per Sara era sopraffazione?

– No, mi sta scoppiando la testa.

– Mi perdoni, Davide. È la condizione comune a ognuno di noi. Non ci arrendiamo all’idea che il mondo sia un luogo di orrore, se osserviamo oggettivamente la natura. La nostra razionalità ci conduce a questa conclusione insensata. Allora dovranno esserci due realtà. La coscienza, o meglio, la nostra autocoscienza esperisce in due direzioni opposte: riflette muovendo dal mondo esterno e, al contempo, si rivolge nella direzione opposta provando a comprendere il fondamento della propria vita. Attraverso la verità scientifica (verità spesso confutata nel ciclo del divenire), presumiamo di aver capito la realtà della natura, dimostrando spesso una carenza, mettiamola così, di rispetto nei confronti di essa e incrementando nell’autocoscienza quel distacco tra l’Io e il corpo di cui fa parte. Questo dualismo, che la coscienza utilizza da tempi remoti, potrebbe tornare utile, in realtà, se creasse un movimento interno/esterno tale da coinvolgere entrambi gli opposti; a dimostrazione che questa attività avrebbe potuto condurci verso un arricchimento di vita e non a provocare una ulteriore distanza, insanabile, tra diverse realtà, come è avvenuto per noi occidentali.

– In che senso professore?

– La coscienza può cogliere solo parti di verità che si confrontano con altre verità parziali non coincidenti, e quindi opposte. Ogni frammento di verità porta con sé un’apertura di senso. Nel loro rapportarsi sono costrette ad analizzare l’una il senso dell’altra. Quando l’attività della coscienza riesce a combinare entrambi i sensi che queste verità celano con l’ausilio del proprio opposto e trova dei punti di contatto tra i due pensieri, ecco emergere un ulteriore punto di riflessione. Una sintesi, un movimento che genera un nuovo percorso.

– Credo di afferrare, ma non del tutto.

– Le vengo incontro, Davide. Sto dando ragione alla sua visione della realtà e insieme proveremo ad analizzarla. Elaborando il suo pensiero, potremmo ipotizzare d’essere due interlocutori, due autocoscienze, ognuna depositaria di una parziale verità. Due parti di verità avvitate su se stesse, siamo anche due predatori/prede. Ora, il nostro flusso potrebbe rimanere bloccato se rimanessimo ancorati ai nostri principi, che riteniamo incontrovertibili; e che altro non sono, invece, che due parziali verità. Certamente, il predetto flusso rimarrebbe altresì bloccato anche se solo uno di noi due non si sforzasse di uscire da questa incresciosa circostanza. Tale situazione di stallo provocherà, anche in questo caso, un sommovimento, ma destinato a distanziarci oppure a distruggerci a vicenda, ad esempio con un feroce fisico scontro diretto. Se, come precedentemente detto, le nostre due parti di verità provassero o sentissero la necessità di trovare una terza via, tale movenza potrebbe generare un’unione, che non sarà mai una fusione, ma un puro completamento. Se ho saputo spiegarmi: da due elementi conflittuali potrebbe emergere un elemento migliore.

– E le due parziali verità non risulterebbero annientate da questo movimento? – domandò incuriosito Davide.

– No, avverrebbe una integrazione, come ho appena detto, secondo il mio sobrio modo di intendere. Il suo amore per Sara, adesso, in virtù di quanto le ho esplicitato, è da Lei colto ancora come un atto di sopraffazione?

– No, effettivamente no.

– Proviamo a tornare sul discorso riguardo Dio e il divenire dell’uomo?

– Va bene, professore. Proviamo.

– Il  professor Severino, che personalmente considero come uno dei maggiori filosofi viventi, ha spiegato, riassumendolo molto sinteticamente, più volte, che all’origine di ogni errore filosofico ci sia il credere che il nulla “è”. Questo pensiero ha fatto nascere e scatenato, in noi occidentali, una fede insensata nell’idea che le cose siano e non siano nello stesso tempo; che le cose vengano dal nulla per tornare nel nulla. A parere dello stesso Severino, di questo vizio d’origine il pensiero non si è più liberato. Egli spesso pone come esempio la legna che per azione del fuoco diventa cenere e noi, secondo la nostra consolidata struttura di pensiero, ogni qual volta che scorgiamo la cenere la associamo di conseguenza alla legna.

– Vero – disse Davide.

– Un po’ come è accaduto a quel suo amico. La cenere raffigurata quale risultato del nulla che prima d’essere cenere era ancora altro.

– Sì, ho avuto la fortuna di seguire alcune conferenze del  professor Severino e, per come espone l’intera questione, non saprei come contraddirlo, anche se non l’ho del tutto approfondito.

– Acquisire consapevolezza non la aiuta a star meglio?

– No, quando la tegola che cade colpisce proprio la tua testa.

– Capisco. Andiamo oltre. Nietzsche afferma che Dio è morto, ma apparentemente, in lei, sembra sia costantemente vivo. Ne parla assiduamente.

– Lo era anche in Nietzsche, in gioventù. Dio muore per stanchezza.

– Cosa intende?

– A un certo punto Dio, prima onnipresente, col procedere del tempo si esclude dal mondo. Pian piano Egli si ritrae dalla nostra realtà e, alla fine, anche dalle nostre coscienze. Non è più attuale, in noi, e assume l’identità d’una parola di scarso contenuto e, infine, del tutto priva di significato. I suoi valori non ci appartengono più, ma non riescono nemmeno a essere sostituiti. Da qui la perdita di ogni senso e il famoso nichilismo. Credo.

– Questo è sempre Nietzsche, però. E come la mette con il quasi 90% dei cristiani presenti solo in Italia? Non sono credenti?

– Molti non sanno di non esserlo; hanno ricevuto il battesimo e sia la comunione che la cresima. Eppure, sono tutt’altro che ferventi cattolici. Non vedo chiese affollate come cinema o ristoranti. Potrebbe trattarsi di una forma di attaccamento alla tradizione. Sono molti i cristiani a non credere nei miracoli, in Satana e nell’inferno. Più del 65% se ben ricordo ha votato, all’epoca, per il divorzio e per l’aborto. I numeri consolidano questa mia opinione.

– Davide, voglio dare uno spunto: sarebbe possibile che a Dio possa essere necessario proprio il nulla per muovere il mondo?

– Non la seguo.

– Ha presente quei giorni invernali quando si scatena il mal tempo e noi fortunati, al mattino, appena svegli, siamo sotto le nostre coperte ben consapevoli che fuori dalla nostra finestra, in quel momento, è in atto un nubifragio? Ebbene, in un giorno così brutto che causerà danni e disagi in generale, noi proviamo quella strana piacevole sensazione per trovarci caldi e al sicuro, e dalla quale fatichiamo a separarcene.

– Sì, è vero, è una cosa abbastanza naturale, immagino.

– Bene. Lo stesso accade all’anima. L’anima si ritrae in sé di fronte all’idea del nulla, ed essa stessa diventa un rifugio dove può viversi come fosse realtà infinita.

– Cerco di starle dietro, ma Dio?

– Seguendo i pensatori del Novecento e le sue idee, la figura di Dio è paralizzante, la sua esistenza non permetterebbe all’uomo di esprimere la propria creatività. Di vivere pienamente. L’uomo senza la propria fede nella possibilità del gesto creativo e, cioè, nella capacità di poter muovere le cose a partire dal nulla, sarebbe egli stesso niente e ne morrebbe, poiché non potrebbe in nessun altro modo adattare le cose e lo stesso ambiente circostante alla propria volontà. Non è possibile, d’altra parte, che Dio abbia avuto bisogno del nulla per concedere la libertà all’uomo? Magari, può aver deciso di non essere l’ente necessario, ma il senso dell’essere.

– Ma ciò lascerebbe intuire, a questo punto, che Dio e il nulla coincidano – propose Davide.

– Tutto è nulla. Solido nulla. Elaborò Leopardi. Condannando nei confini di questa breve parola l’universo intero. Sembra incredibile la potenza che può avere una sola parola. Noi le utilizziamo per convenzione o per descrivere i nostri pensieri e non ci rendiamo, per lo più, conto che questi simboli designano ed evocano contenuti e immagini archetipiche interiori che agiscono nella psiche umana. Fu Wittgenstein a definire la proposizione come un modello della realtà, come noi la pensiamo. Per cui “il nulla” si riferisce a un pensiero, consolidato da millenni nella nostra mente. In conclusione: se Dio fosse “il tutto”, a parere almeno di Leopardi, sarebbe anche “il nulla”.

– Lei crede possibile questa ipotesi?

– Mi dica se Lei la crede possibile. Posso semplicemente chiarire che ogni ragionamento, a mio avviso, può essere utile a risolvere o affievolire i nostri dilemmi. Comunque, sono ormai persuaso che l’anima subisca una forte spinta vitale proprio in proporzione alla forza del sentimento di morte che la penetra.

– Al modo delle pulsioni descritte da Freud? Eros e Thanatos?

– Più o meno. Freud, descrive il conflitto psicologico basandosi sul mito. Fondamentalmente, la psicoanalisi si avvarrà del mito. Ma, il mito, storicamente, risulterà insufficiente all’uomo e, col tempo, decadrà lasciando il posto alla filosofia. Questo è il motivo per cui si è rivolto al sottoscritto. Siamo entrambi consapevolmente corrotti dalla ragione.

– Corrotti dalla ragione?

– Sì, come affermò Leopardi nei suoi scritti. Rifletta su questa nostra conversazione.

– Ci penserò su.

– A proposito, la sua tesi procede?

– Sì, professore. Ho preso spunto dal mito di Prometeo, che, donando agli uomini il segreto del fuoco, gli dona in realtà la tecnica e l’ottimismo per il futuro. Eschilo dice che Prometeo inaugura una temporalità che non guarda più al passato, ma “il tempo che invecchia”, su cui costruiamo i nostri progetti.

– “Nessuno avverte il tempo separato dal movimento delle cose”. Siamo condannati a fare e a pensare, caro Davide. E dobbiamo rinviare la nostra bella conversazione alla prossima seduta. – così il professore congedò Davide, che si alzò dalla poltrona porgendogli la mano.