PROLOGO (di seguito il I e il II capitolo)
Io e un altro
Capita spesso che mi svegli nel cuore della notte per un rumore fastidioso. Una goccia d’acqua esce da un rubinetto e cadendo batte sul fondo del lavandino della cucina, la quale è distante dalla mia camera da letto. L’ascolto. Il picchiettio è nella testa e non riprendo più sonno. Non ci riesco proprio. Mi alzo dal letto e cammino nella stanza, il rumore è ormai dentro e non esce fuori nemmeno se mi distraggo guardando le strade semibuie dalla finestra.
C’è un’apertura di senso tra noi e le cose ed è un senso che ha bisogno inizialmente del cuore per essere colto. Certo è fastidiosa una goccia d’acqua che ti martella la testa. Gli antichi Egizi credevano che la sede del pensiero fosse il cuore, l’unico organo che non veniva rimosso in caso di mummificazione. Il cuore conteneva l’anima e il pensiero.
Guardo la rosa che ho preso per Josh. L’ho messa accanto alle sue ceneri, sul comodino, oggi sarebbe stato il suo compleanno. Fratello mio, quanto mi manchi. La rosa è screziata, e, nel linguaggio dei fiori, è il segno di un amore tradito. Era l’unica bella rosa rimasta ieri sera nel chiosco del fioraio poco distante da casa mia, ed è ciò che vale. Non ci siamo mai traditi, di te sono sicuro, di me spero d’esserti stato leale. Come avresti visto questa rosa? Come la vedo io? Non è importante per la verità.
Sono strani i filosofi, si pongono certe questioni, come ad esempio: “Se un albero cade nella foresta, e nessuno lo sente, fa rumore?”. Così si è sollevata una gran questione: esiste una verità indipendente dal nostro pensiero, oppure no? Il profumo di questa rosa chi lo sente? E i suoi colori chi li vede? I miei sensi mi dicono queste cose che immagino siano qualità che appartengono a questo fiore. Ma tali qualità esistono solo nella mia mente, se ben ci rifletto. Fin dove posso allontanarmi non saprei proprio. So fin dove vorrei avvicinarmi: da Josh, da Sara.
Tra me e il mondo esterno ci sono i miei sensi. Due realtà chiuse in sé. Quel che chiamo esterno è perché mi avverto dentro, senza possibilità d’uscire se non attraverso i sensi. Anche il mondo la penserebbe allo stesso modo, se potesse. Forse può, mi piacerebbe. Non ho più quella maledetta goccia nella testa, senti che baccano che fa il silenzio, molto di più di qualunque rumore. Quanti siamo dentro? Due sembrano certi.
Se un albero cade nella foresta, e nessuno lo sente, fa rumore? Di sicuro, se ascoltassi musica a tutto volume con le mie cuffiette, o se fossi sordo, no, non farebbe alcun rumore.
E la faccenda diventa ancor più complicata. Cos’è il rumore? Qualcosa di esterno o interno a noi? Una farfalla batte le sue ali. Lo sento il suo rumore, quello prodotto dalle piccole e sottili ali? No, non riesco a sentirlo, però non ne posso negare l’esistenza. Edward Norton Lorenz nel 1972 tenne una conferenza dal titolo: Può, il batter d’ali di una farfalla in Brasile, provocare un tornado in Texas?
Il rumore, quindi, è uno spostamento d’aria, non propriamente un rumore. Una vibrazione dell’aria prodotta da qualcosa o da qualcuno. Non si può negare di certo uno spostamento d’aria, una vibrazione, esisterebbe lo stesso, anche se non ci fosse nessun essere vivente capace di udire. D’altra parte, se uno spostamento d’aria produce rumore; il rumore è solo un’interpretazione dell’essere, o meglio è l’incontro delle vibrazioni esterne con l’organo uditivo di un organismo in grado di elaborare e tradurre l’informazione in suono, ma da dentro. E lo stesso vale con i colori di questa rosa. Me lo fece intuire Sara in un sogno.
Se un albero cade in una foresta, e nessuno lo sente, fa rumore? Che importanza potrebbe avere? Di certo avrebbe importanza per l’albero e nessuno si è posto tale questione. Una foresta non potrebbe mai essere priva di un organismo che sia in grado di percepire il disagio di quell’albero. E con questa riflessione è difficile negare l’esistenza di una realtà esterna a noi.
Da bambino ascoltavo migliaia di rumori, all’inizio tutti sconosciuti. Il cinguettio degli uccelli, il motore della moto di mio zio, il fiammifero sfregato sulla parte ruvida della scatola che lo conteneva, la risata di mia madre e quella di mio padre. Quanti rumori ho dovuto imparare a riconoscere? I rumori sono dentro di noi. Anche il soffio del vento in inverno e quello soffice, quasi impercettibile, dei fiocchi di neve che cadono sull’asfalto in una mattina di dicembre, o il lamento notturno d’un gatto. Le nostre parole pronunciate sono simboli che sappiamo decifrare, cioè sono rumori a cui diamo un immediato significato. Forse ci facciamo la domanda sbagliata. Cosa prova l’albero mentre cade nella foresta? Cosa cambia per lui, in lui, e per tutti gli esseri animali e vegetali che popolano la foresta? In che rapporto sono io con quell’albero, e lui in che relazione è con me? Ci deve essere per forza un ascolto tra me e l’albero affinché si produca la realtà? Esiste una verità fuori e una dentro? E, insieme fanno una sola realtà?
Pare che il Buddha abbia detto “La forma è il vuoto e il vuoto è forma”. C’è un nesso con quel che sto elaborando, ma non riesco razionalmente a esprimerlo. Sono Io a non saperlo esprimere, ma l’altro senza dubbio è più saggio di me. Io e un altro. “Io è l‘altro”, scrisse Rimbaud, e la poesia non fu più la stessa. Forse tornò alle origini, al mito? No. Ogni narcisistica necessità venne sepolta. Fu l’inizio di qualcosa di diverso. L’Io ascoltò il canto dell’altro per voce dell’Io e nell’ascoltarlo si lacerò irrimediabilmente. L’Io è ascoltatore, corrotto dal limite ostile della ragione, in cerca di salvezza.
L’Io deve trovare il vuoto interno per congiungersi all’altro che sia un fuori o un dentro? “È falso dire: Io penso: si dovrebbe dire Io sono pensato. Scusi il gioco di parole. Io è un altro”. Scrisse sempre Rimbaud al suo insegnante. L’Io che da soggetto, da attore protagonista, si rivela una semplice comparsa, un non nulla, chi lo accetterebbe? Rimbaud lo immagina, l’Io, forse lo svela, come l’oggetto che subisce il pensiero. Quale pensiero? Ma, quello sotterraneo, non le idee di Platone che rispecchiano il fuori.
Un pensiero “autoctono” che risale dall’interno e che l’Io subisce. Com’è complessa la natura in fondo. Come disbrigarsi nel suo inganno? L’Io che si pensa soggetto è inconsapevole di chi lavora alle sue spalle, insomma è altro da sé pensando d’essere se stesso e diventa veramente cosciente di sé solo quando si depotenzia rendendosi ascoltatore del proprio demone o, meglio, di demoni interni.
Sta capitandomi la stessa cosa? Non voglio essere poeta, non desidero in me degli universali. Lotto per mantenere il controllo. Un controllo che non ci sarà mai. La mia è follia cosciente, in fondo.
La poesia cos’è. Qualcosa che i filosofi odiano. Non tutti. Nietzsche fu un poeta. Leopardi fu un filosofo. La poesia è il posto in cui l’Io non ha controllo, travolto dalla congiunzione degli opposti.
Il pensiero è superfluo, in fondo. Per questo ho deciso di non avere figli. È qualcosa che non potrei mai fare: mettere al mondo un figlio. Posso accettare gli altri, non i miei. Per me equivarrebbe a uccidere. Non si può assecondare la natura dopo averla resa crudele. L’ho resa crudele e non sono stato l’unico; ho imparato da altri.
Se un vulcano erutta in un’isola deserta, e nessuno lo sente, fa rumore? Le vibrazioni arriverebbero anche a migliaia di chilometri di distanza e sarebbero in molti ad accorgersene. Un vulcano è differente da un albero. Ma quante stelle esplodono nell’universo e nemmeno ce ne accorgiamo? E una stella è molto differente rispetto a un vulcano.
Tra Io e l’altro c’è una differenza/identità. Il legno che si ritrova violino. L’Io è un altro. Questo è il vero motivo per cui non trovo una possibilità d’arrivare al dunque?
Josh aveva il potere di mettermi in contatto col dentro. Lo stesso accadeva con Sara. Con entrambi c’era un rapporto di differenza/identità. Rapportandomi con loro, mi rapportavo con la mia anima, per gradi, e non sempre allo stesso modo.
Non era come lo era per Rimbaud, perché la mia autocoscienza non perdeva totalmente la propria identità, ed era anche altro da sé, non entrava in confusione, era in simbiosi. Quando accadeva, accadeva anche il senso. Coglievo una sorta di senso, che m’appagava. Non potevo dare all’altro tutto il mio Io, sarebbe stato come consegnarlo al nulla. Annientarlo.
L’amore è un sentimento irrazionale/razionale. È complesso, è una emozione colma di affettività e ha una base razionale, ma si avverte come un bisogno. Chi ami, spontaneamente, ti conduce dentro.
Credevo di morire senza Josh. Credevo di morire senza Sara. Forse amare è anche questo. Il voler provare la propria morte quando l’altro è perso per sempre.
L’amore cristiano per me è incomprensibile, è il mio limite. L’individuo costretto a porsi come ‘dividuo. Posso provare compassione per l’altro, con–divisione, amarlo come idea e come una sorta di identificazione con delle macchie interne a me, prive di definizione. Non posso amarlo come Josh e come Sara. Non sarebbe giusto. Sarebbe tradimento.
Un tempo anche Sara apparteneva alla massa, all’indifferenziato. Ha vissuto porzioni di vita senza che ne avessi alcuna idea. Poi ci siamo incontrati, parlati, conosciuti e amati. È stato il progressivo avvicinarsi di ogni nostra differenza e di ogni nostra identità.
Sono sicuro, ora: non posso amare ciò che non abbia una identità, perché sarebbe come amare me stesso, poiché sarei costretto a dargli la mia di identità.
È per questo che coloro che sono contro la pena di morte per lo più sono solo contrari alla loro morte. Un egoismo innato. “Io” sono contro la pena di morte, perché c’è differenza se guardi una mucca considerandola sacra o se la guardi come una futura bistecca. Io guardo all’altro come a qualcosa di sacro e di diverso da me.
Rimbaud cercava il cambiamento e la sua poesia era una poesia in divenire. “Se l’ottone si sveglia tromba non è affatto colpa sua”. Se qualcosa, o meglio qualcuno, consapevolmente si ritrova a essere qualcun altro, egli diviene. E non è sua colpa.
L’Io, come un dio, osserva se stesso e si fa ascoltatore di sé. Ma l’Io simile al dio greco, come Dioniso, è vittima lacerata.
Quel cervo che guardavo nel buio corridoio, i suoi occhi mi imploravano di salvarlo, come fossi un dio, ma un dio greco. Un dio che muore e poi, forse, rinascerà. Un dio diveniente.
Così nulla è perduto, se anche dio è morto.
Ho conosciuto Lara. Non so ancora cosa provo esattamente per lei. È molto bella e indubbiamente mi piace e la desidero. Mi fa male un pensiero. Per questo mi rinchiudo nella indecisione:se riuscissi in futuro a provare amore per lei, avrò creato altra distanza tra me, Sara e Josh. Perché l’anima non può vivere eternamente di conflitti.
Non si può amare indistintamente. Poiché ciò che è anonimo, oscuro e selvaggio, una volta emerso deve pur saper rientrare.
Almeno, io so che devo amare il particolare. Sono qui per questo. Nell’abbandono, in direzione del molteplice, finirei per distruggere ogni intima consapevolezza, anche quella del mio amore per Sara e per Josh.
Non trovo nessun superamento in ciò. Intendo in questa concessione assoluta dell’Io all’indistinto. Vedo un semplice rigonfiarsi, un sommarsi che finirà con un doloroso strappo. Non posso accettarlo. Non sono ancora pronto a ingoiare il rospo.
Dio e il nulla. Io e un altro. Io è l’altro. Dio è il nulla.
Questo calcolo incessante finirà per uccidermi. Se così fosse vorrebbe dire che Dio non è morto?
Se un albero cade in una foresta, e nessuno lo sente, fa rumore?
Credo di non essere pronto ad accettare la realtà così come essa si presenta.
CAPITOLO I
“la forma di una tragedia”
La luna bianca e fredda brilla nel cielo, eppure è così buio. La volontà vuole vivere. È estremamente complicato, inumano se si vuole. Ci troviamo di fronte a due possibilità, che si riducono per forza di cose a una sola: andare avanti, non fermarsi. A prima vista tutto appare regolare, chiaro. La priorità è vivere, qualunque cosa possa voler significare. Per questo la lotta sarà sempre fino all’ultimo respiro.
Sotto la pioggia, appesantito dall’acqua, attende l’ultimo tram. La moglie se n’è andata; stanca dei suoi lamenti, quegli inutili rigurgiti di ostinazione verbale. Non avrà più un amore caldo. Tanto non lo era più già da moltissimo tempo. Tutto si paga. Almeno ora ogni cosa è più ovvia, limpida. Dov’è il suo passato? Può percorrerlo a piedi, in auto o viaggiando in un tram? Il passato non è più. Dove si sarà rifugiato? Anche Davide scapperebbe da se stesso, se potesse. Qualcuno lo ha amato, gli ha voluto bene, oggi è memoria. Il tram lo porterà a casa come ai tempi in cui era ragazzo. Potrà prepararsi, finalmente solo, una tazza di caffè bollente e crogiolarsi ripensando a tutti gli errori commessi, dopo essersi tolto di dosso quegli abiti bagnati.
Come continuare a vivere non pensando a lei? Non a Lara, sua moglie, lei sta bene. Non è vero che sta bene, ma Davide si sente peggio e da molto più tempo. Tutto termina senza che sia necessaria una discussione, una spiegazione. Peraltro a cosa potrebbe servire? Riporterebbe in vita sua figlia? Se n’è andata, anche lei, così, d’improvviso, senza tante storie. Dopo una breve malattia dal nome assurdo: leucemia fulminante. Ognuno di noi è consapevole che si possa morire anche in quel modo, come prendere la decisione di schioccare le dita o come quella di aprire il frigorifero per prepararsi un panino. Solo non credeva potesse accadere di nuovo e questa volta alla sua famiglia. Credo che nessuno lo ponderi fino al momento in cui capita.
Non immaginava nemmeno che potesse esistere qualcosa del genere. In pochi giorni tutto finisce, cancellato, espulso da questa vita assieme ai sogni, alle aspettative, al futuro di ognuno di loro. Non era veramente sua figlia, ma qualcosa di più: l’idea nata dal non avere molte alternative; e, poi, la sofferenza di doversi rassegnare a compiere tutti quegli atti necessari per accogliere un affetto rifiutato da altri. Uno scarto? Tanti sacrifici. Rinunce a scelte importanti. Sorrisi. Dubbi. Infine la voglia per entrambi, marito e moglie, di andare in fondo. Costi quel che costi.
Dei soldi, a loro due, poco importava. Il denaro era stato relegato a mezzo e non a fine. Perché il fine era arrivare ad Adele. Quando il tutto venne idealizzato, organizzato e messo in atto, fu faticoso, perché si dovette andare e tornare, per alcuni mesi, da Roma a un istituto ubicato in un luogo quasi sperduto di un paese, dal nome impronunciabile, nelle campagne della Bulgaria.
Poi, finalmente a casa. Per sempre. Con una cucciola di poco più di due anni. Lara si mise in aspettativa per oltre sei mesi: Adele aveva bisogno di lei, o forse era il contrario?
Di quell’istituto rimase, a loro, il ricordo di uno strano silenzio, non proprio un silenzio. Un silenzio col brusio come sottofondo. Lara e Davide ci fecero caso ogni qualvolta vi si recarono. Non sembrava, esattamente, un luogo che dovesse contenere gli umori dei bambini. A Davide venne in mente che non sentissero alcun bisogno di far rumore, perché sarebbe stato del tutto superfluo impegnarsi a catturare l’attenzione di nessuno. Di conseguenza, gli fu chiaro che quel loro isolamento non potesse far altro che smorzare il desiderio del gioco e del parlare. Una volta a casa, si colse come un salvatore. Una nuova vita per Adele, una lunga vita. Immaginandola piangente sulla tomba dei propri generosi genitori adottivi. Congiuntamente a un compagno e a dei figli. Come cresce l’angoscia di fronte all’imprevedibilità della vita: il passato è andato, il futuro non è, e il presente non può che sfuggirti in ogni momento. Ci vorrebbe una casa sulla collina. Così il panorama cambierebbe, mentre scruta la finestra e gli alberi dai rami pieni che in parte occultano la vista del marciapiede.
Ma cosa desidererà guardare? Ora è attento al caffè che sale brontolando. Prende la tazzina e un cucchiaino. I capelli li ha ancora bagnati. Sua madre lo avrebbe costretto ad asciugarli con il phon. Al momento è libero di lasciarli umidi, col ciuffo grigio che gli cela un occhio. Copre una parte di sé come fanno tutti. Ci sono momenti di disordine, e ne sta vivendo uno in questo istante. E quel caffè bollente gli brucerà la lingua, così che avvertirà il bisogno di morderla.
Il dolore riporta sempre la giusta attenzione sulle cose: la realtà. Risparmia a se stesso di accendere il televisore e provare per l’ennesima volta quel noioso senso di estraneità dall’odierno, dalla storia, dalle guerre, dalle morti insensate. No, a quelle no.
Ci vorrebbe un vizio per questi pensieri. Domani mattina avrà un treno ad attenderlo.
Viaggiare in treno è predisporsi a viaggiare nel tempo. Sei fermo, immobile su di una poltrona, in una trappola che ti trascina nello spazio, tra il prima, il mentre e il poi, a una velocità che non è esattamente quella della luce. Se solo chiudi gli occhi per lasciarti cullare dal continuum di spazio e tempo, ecco che ti ritrovi lontano dalla realtà, in un’altra realtà. Un’altra pelle. Cos’è la realtà? Se si potesse conoscere il punto di vista del sogno sarebbe davvero una gran cosa. Anch’esso potrebbe avanzare la pretesa d’essere una realtà? Stamattina Davide lo vorrebbe. Desidererebbe che la realtà fosse il contenuto del pensiero per rimodellarla in maniera del tutto diversa. Gli tornò alla mente Oscar Wilde: “Tutti i pensieri sono immorali. La loro vera essenza è la distruzione. Se pensi a una cosa la uccidi. Nulla sopravvive se viene pensato”.
Da insegnante di filosofia, quante volte ha elaborato la morte. Questo aforisma gli era parso così profondamente e ottimisticamente vero, fin da ragazzo, dal momento che lo lesse e ogni qual volta che tornava nuovamente alla memoria.
La morte è veramente immorale al pari di ogni pensiero creativo, che continuamente uccide ciò che è stato pensato, insaziabile di infinita perfezione. Ora Davide desidererebbe la morte dell’idea della morte per una vita: quella della figlia. Anelerebbe che la propria volontà non si trovasse di fronte a un dio. Davanti a un muro impenetrabile che lo opprime, che lo obbliga ad accettare il proprio miserabile destino. Il destino, già. Ma il destino non può essere lo schiavo di Dio; questa fu l’ultima cosa che gli venne in mente, poi gli occhi stanchi si chiusero. Riposò per quasi un’ora, finché non fu svegliato dalle gocce d’acqua che cadevano infrangendosi sul vetro del treno.
Di nuovo l’incubo che si ripresenta. Eppure gli parve poter essere vero quel sogno che si era appena allontanato. Consapevole di sognare, aveva provato a toccare ogni cosa che lo attorniava per poter appurare se fosse reale, se avesse consistenza. Così sembrava, per cui, non desiderava svegliarsi, riapparire alla realtà. Nell’altra realtà intuiva che, tornando a casa, si sarebbe ricongiunto alla propria ritrovata famiglia e, quindi, adesso la vita di Adele sarebbe potuta dipendere unicamente dalla propria volontà.
Ma, poi, l’acqua e l’oceano arrivarono, improvvisamente, travolgendo ogni cosa; privandolo dell’aria e costringendolo a rientrare da dove era momentaneamente uscito. Che strano. La bocca era piena di saliva, pensò. L’ultima volta che gli era accaduto fu quando, qualche mese prima, dovette curarsi un’ulcera con delle forti dosi di antibiotici per debellare un nido di batteri che aveva trovato casa nello stomaco. Non che gli importasse. Non gli importava più di niente, nemmeno del lavoro che rischiava di perdere, e che fino a poco tempo prima aveva svolto con profonda passione. Educare. Amava educare, naturalmente da un punto di vista morale e intellettuale, giovani studenti. Tentava di alimentare in loro il pensiero, senza essere pressante, pesante, tenendo bene a mente che anche l’educazione è una forma di violenza, perché tende a una trasformazione della persona. Certamente, cercando di far emergere il meglio, ma, comunque, questo pensiero lo assillava molto, e ne avvertiva l’enorme responsabilità.
Fu meglio assentarsi, prima con la malattia e poi con le ferie, che farsi vedere mezzo ubriaco di prima mattina e assente, perché immerso tra nocive elucubrazioni, come non lo era mai stato prima. Un macigno furono le parole di Lara, sua moglie, il giorno che Adele morì. Rimasero impresse nella mente. Entrambi si rifugiarono nella loro stanza, quel giorno, lasciarono Adele sola e morta. Cercò di dispensare conforto a Lara abbracciandola con forza, ma lei si divincolava e, poi, piangeva disperata e urlava con disprezzo assoluto:“Dio è di una crudeltà infinita. Infinita!”. E lo ripeteva. Lui pensò tra sè: “Eraclito era giunto alle stesse conclusioni: ‘Dio è guerra, pace, entrambe le cose’”. Gli venne da ridere e da piangere, contemporaneamente al senso di colpa per la propria rivelata inopportuna imbecillità.
La notte stessa gli apparve in sogno la figlia. Si era alzato dal letto col desiderio di darle un bacio sapendo che dormiva e che non se ne sarebbe nemmeno accorta. Qualche volta accadeva. Quel gesto serviva a soddisfare un desiderio profondo e necessario, per sé. Nel sogno rimase sorpreso dal fatto che Adele non si trovasse nel letto a dormire, e cominciò a preoccuparsi. “Dove sarà andata?”, pensò, “Forse è in bagno?”. Tornò in camera da letto da Lara, che nel frattempo si era svegliata, e disse:
– Sai, Adele non è a letto a dormire, credi sia in bagno?
– Amore, Adele è morta, non lo ricordi? – rispose Lara con la voce gonfia di sonno e voltandosi di spalle.
– Che dici, lo abbiamo sognato? Certo è strano aver sognato entrambi la stessa cosa, non lo nego, non è un buon segno. Ora la vado a cercare, per tranquillità.
Si infilò i pantaloni sopra a quelli del pigiama e si lasciò le pantofole. Guardò in bagno per appurare che non fosse lì, e, poi, uscì di casa deciso a ritrovarla. L’avrebbe certamente rimproverata per lo spavento causato. Nel cortile condominiale non riusciva a scorgerla e gli salì l’angoscia, improvvisamente. Non trovò altra scelta che pensare di citofonare ai vicini, affinché lo aiutassero nella sua ricerca.
Intanto, una bella signora ben vestita si avvicinò e gli chiese: – Sta cercando Adele, sua figlia?
– Come fa a saperlo? Non importa. Dov’è mia figlia?
– A casa mia. L’ho scorta che bighellonava nel cortile, così l’ho invitata a salire da me. Sono riuscita a farmi spiegare chi fosse e dove vive, e ora venivo a rintracciarla.
– Perché non l’ha portata con sé?
– Non posso.
– Che significa non posso?
– Mi segua, la prego, e non faccia altre domande.
Davide le andò dietro completamente rapito e perplesso. Assomigliava molto a Lara quella donna, ma aveva un qualcosa di diverso. Gli parve tutto così strano. Di sicuro non poteva fare a meno di assecondarla. Entrò nell’appartamento della donna, immaginando Adele dietro la porta ad attenderlo.
Rimase sorpreso di vedere un’abitazione con un arredamento così antico, commisto ad altro moderno.
– Dov’è Adele? – domandò Davide.
– L’aspetta nel bagno – rispose la donna.
– Cosa? Che significa?
Adele uscì di corsa dal bagno riconoscendo la voce del papà e gli si avvinghiò al collo, baciandolo come una forsennata. A Davide sembrò non si trattasse di sua figlia, ma di un’altra bambina della stessa età e rimase, per un momento, come paralizzato. Respirando profondamente si riprese. Era certo sua figlia, chi altro avrebbe potuto essere?
– Papà vieni con me – gli afferrò la mano e lo costrinse a seguirla fuori dall’uscio, verso il cortile.
Di fatto era giunto il mattino, un bel mattino, e gli uccellini intonando il loro canto sembravano inneggiare alla vita e non solo. I fiori si aprivano alla luce della nuova alba. Alcuni anziani erano scesi con la palla a giocare come bambini e, pari a loro, correvano senza alcuna fatica. Adele lo portò in una zona nascosta del cortile, che Davide non aveva mai visto fino a quel momento. C’era una vecchia costruzione, grande, con delle antiche porte in legno massiccio. Accanto a loro comparve la bella signora che tanto somigliava a Lara e non era Lara. I tre entrarono nell’edificio e ivi si accorsero che si trattava di un teatro abbandonato, defunto.
Una voce fuori campo disse: “Entrate… entrate… lo spettacolo deve iniziare. Lo spettacolo deve continuare; lo spettacolo deve essere. Entrate attori e pubblico, e fate ciò per cui siete qui. Ora! Non c’è tempo”.
Davide scrutò Adele, a cui brillavano gli occhi, poi guardò la donna, che gli ricambiò lo sguardo con un sorriso innocente. Non capiva, non riusciva proprio a intendere. Adele lo abbracciò e gli chiese di sollevarla da terra e di portarla in braccio fino al palco, dove pendeva a metà altezza un tendone di velluto rosso porpora.
Davide salì le vecchie scale di legno e si diresse verso il centro del palcoscenico e Adele non poté far altro che perire tra le sue braccia, fissandolo negli occhi.
Davide provò un dolore al petto, lancinante, ma rimase in piedi e, poi, non poté rinunciare a pronunciare quelle stesse parole che la moglie aveva pronunciato a suo tempo:
– Dio, Tu sei di una crudeltà infinita!
La donna applaudì e gli sorrise, confermando quel che aveva appena asserito: – È vero. Dio è infinitamente crudele, altrimenti avrebbe perdonato Adamo per aver preteso d’essere come Lui e non lo avrebbe condannato a morire insieme a tutta l’umanità. D’altra parte, Dio è immensamente buono, non lo credi? – domandò la donna.
Davide rimase a osservarla muto. Sapeva troppe cose per essere un’estranea ed era insopportabile in quel momento. Discese dal palco da dove era salito con in braccio Adele, inerte. Appena sceso, Adele si riprese e tornò in vita, assolutamente incurante di quanto fosse accaduto, e sussurrò a Davide, puntando le sue piccole gambe a terra per far capire di voler scendere: – Grazie papà, ti vorrò bene per sempre.
Quel mattino, dopo che fu uscito dal rifugio del sogno, corse in bagno e vomitò fino allo sfinimento. Nella sua testa Adele e il bagno. Perché nel sogno la cercava e la trovava nel bagno? Cosa avrebbe mai potuto significare? Che sua figlia era una sorta di rifiuto? E che, quindi, non sarebbe dovuta essere una gran perdita la sua morte? Possibile che dentro di lui ci potesse stare così tanta sporcizia? Da quel momento cambiò tutto. Iniziò la caduta nel profondo abisso, nel proprio oceano personale. I sogni si moltiplicarono. Le visioni oniriche gli mostrarono, per qualche tempo, le decine di modi diversi per morire; l’unica costante era il momento del transito nel nulla, la piena consapevolezza del proprio intimo, totale, inevitabile annientamento. Il risveglio era quello di un risorto, terrorizzato e in preda ai brividi, totalmente impregnato di sudore. Cominciò a bere molto vino, quei giorni, fino a non reggersi in piedi, fino a poter dormire un sonno senza sogni. Si assentò dal lavoro, da Lara, che aveva necessità del suo conforto, disperata com’era, ma che sapeva reagire in modo del tutto differente, con un dolore più controllato, più sano. I suoi colleghi di cattedra lo protessero e gli evitarono provvedimenti disciplinari, nonché il licenziamento. Alla fine Davide si convinse a collocarsi in aspettativa. Stando a casa iniziò a scrivere. Scrisse con la penna e su qualsiasi foglio di carta, che poi stracciava per il disgusto provocato dalla banalità dei suoi pensieri. Si avvertiva un inetto. Dopo tanti anni riprovò quella sensazione d’essere un fallito.
Crebbe in lui la rabbia per la propria impotenza, per non essere stato in grado di trasformare la vita come avrebbe desiderato; pensando a sua figlia digrignava i denti, chiedendo a sé: “Chi mai potrà più amarmi ora che tu… non puoi amarmi più?”.
Per Davide molti nutrivano e avevano nutrito affetto. Lara lo amava e continuava ad amarlo ma, non sorreggendola, era capace di salvare solo se stessa. A volte sarebbe bello poter credere che sia il vento a spingere la luna per nasconderla tra le nubi, come fantasticava la sua piccola. Nella vita di Davide le donne hanno sempre avuto un’importanza fondamentale.
Lo sferragliare del treno lo distolse dal dormiveglia nel quale si era ritirato. Si trovò accanto, seduta, una giovane ragazza, col cellulare conficcato tra le pagine di un libro. Lei gli sorrise, come volesse accennare a un discreto, educato saluto. Lui guardò gli orecchini: dei pendenti a forma di cuore in acciaio. Forse il regalo di un fidanzato? E così ripensò alla diciottenne Sara, ai suoi capelli scuri lunghi fino alle spalle, alle ciglia folte che celebravano quegli occhi scrutatori sempre accompagnati da un grande sorriso malizioso. Aveva il vizio di morderlo ogni qual volta incorrevano in un litigio. Come la odiava per quei segni che restavano impressi nella carne per giorni. Eppure, in quegli anni, non aveva desiderato altro che lei e le tenere follie in cui era capace di coinvolgerlo, lui, così riflessivo. Erano due giovani che si amavano, e credevano che sarebbe durata per sempre. La ripensò seduta sul letto, intento a toglierle quei maledetti orecchini, perché odiava lasciare ogni cosa incompleta, e il vederla nuda con gli orecchini ai lobi gli suscitava una sorta di fastidio interiore.
Il sesso, un desiderio semplice a quei tempi, così spontaneo, un peccato proibito che non avrebbe potuto non essere violato.
E, come sempre, lei gli domandava:
– Credi che torneranno presto i tuoi?
– Non ci pensare, ho voglia di spogliarti…
Così le baciava i seni. E tutti e due a ridere e a darsi da fare, perché i genitori di Davide sarebbero potuti rientrare presto, e loro avevano voglia di amarsi. Quando la incontrò, per la prima volta, i mandorli e i peschi avevano appena completato la loro fioritura e, solo da alcuni giorni, le mimose s’erano accese in gaia compagnia d’una moltitudine di margherite bianche e gialle che tappezzava i prati verdi e folti di giovane erba. Se ne stava scomodamente seduto sopra una vecchia, instabile panchina di legno, un mattino di marzo, con 1984 di G. Orwell tra le mani e lo sguardo dritto su una ragazza che, a pochi metri da lui, si agitava con una reflex, intensamente concentrata sulla fonte di luce naturale: il sole sullo sfondo di un cielo assolutamente limpido. Lei non riusciva ad accontentarsi di averlo alle proprie spalle, il sole. Dopo alcuni lievi e attenti passi in avanti e in dietro, si voltò verso l’inaspettato spettatore.
– Cos’hai da guardare? Quelli come te, che se ne stanno in silenzio a gufare, sono sempre i più fastidiosi! Gira gli occhi da qualche altra parte, per favore.
– Scusa… non volevo darti fastidio. Mi chiedevo cosa attirasse la tua attenzione con così tanto interesse. Personalmente, vedo il parco di sempre. Tu sembra stia guardando altro.
– Non sei sufficientemente superficiale. Se osservi attentamente potresti vedere al di là del laghetto: un ragazzo che tiene tra le mani il muso del suo cane e parla con lui (sembra una cosa seria dallo scambio di sguardi reciproci); un signore molto anziano che, nonostante il sigaro fumoso, non riesce a mascherare le proprie lacrime, e non immagina nemmeno che sia stato ritratto. Poi, nascosta tra i pini marittimi, una coppia di scoiattoli che gioca con delle ghiande. Ti basta?
– Mi prendi in giro? – chiese Davide, che non vedeva nulla di tutto ciò.
– Certamente. Scommetto che ora mi chiederai come mi chiamo e poi se ho voglia di uscire, no?
– Davvero? Posso? Così?
– Ma nemmeno se ti suicidi qui.
– Non ti ho chiesto mica niente – ribatté Davide divertito.
– Ah, ma stavi per farlo… ammettilo e uscirò.
– Si… si… e quando?
– Ma se non so nemmeno chi sei? Sei tutto scemo, credimi.
Continuarono a giocare. – Sono Davide e tu?
– Sara… Cosa facevi finta di leggere?
– No… è per un esame. Frequento l’università… comunque, è molto bello… almeno le prime trenta pagine, quelle che ho letto finora. Si tratta di un classico.
– Va beh, non ti emozionare… che tanto me ne devo andare… Uno che va all’università, che prova a rimorchiarmi.
– Sono al primo anno, non sono tanto vecchio… – si affrettò ad affermare Davide. La ragazza gli piaceva.
– Ok, va bene. Devo andare.
– Lasciami il tuo numero di telefono o, se vuoi, ti do il mio.
– No! Fa bene stare un po’ in ansia… sei un tipo troppo tranquillo per i miei gusti.
– Posso cambiare. Si cambia nella vita – dichiarò, ridendo, Davide.
– Chi ti dice che mi piaci?
– Beh, sei qui a chiacchierare con me, non lo faresti altrimenti.
– Sei sveglio. Sveglio? Ora me ne vado, la prossima volta ti dico di sì.
– C’è una prossima volta? – domandò Davide.
– Ci sarà o, forse no, deciderà il destino.
– Siamo noi il destino – disse Davide.
– Allora alla prossima.
Sara corse verso il cancello d’uscita, attraversando la strada in tutta fretta, come fosse una preda decisa a sfuggire al predatore. Davide rimase a guardarla, certo che avrebbe fatto di tutto per ritrovarla. Poi, d’impulso, decise, e la seguì fino a casa senza che se ne accorgesse. Non glielo disse mai. Le lasciò credere che il destino avesse operato per entrambi.
Davide, contrariamente a molti giovani della sua età, pensava spesso al significato della vita e al destino. Da bambino nutriva un grande affetto per il proprio cane, un pastore belga non del tutto puro, ma dotato di una spiccata intelligenza e di un improbabile senso di responsabilità. Josh si comportava come un fratello più grande: protettivo, affettuoso, in grado di “fiutare” ogni genere di pericolo.
Era un rapporto così “simbiotico” il loro che con gli anni Davide ne cominciò a soffrire. Provava una sorta di infelicità pensando a Josh destinato a invecchiare, mentre, al contrario, lui ogni giorno era più forte e autonomo. Guardarlo correre lo rendeva straordinariamente felice, e una volta che si pose il problema del destino, ormai adolescente, pensò a Josh che correndo dava libero sfogo al proprio istinto, la gabbia alla quale non avrebbe mai potuto sottrarsi e in cui si abbandonava, e nel farlo lo si poteva scoprire veramente libero. Davide ogni volta glielo leggeva negli occhi. Josh ebbe la fortuna di morire di vecchiaia e, quando accadde, Davide era un diciottenne.
Soffrì molto e spese tutti i suoi risparmi per poterlo cremare e continuare a tenerlo accanto a lui. Lo ripose sopra il comodino, nella sua stanza, all’interno di un sacchetto di plastica contenuto, a sua volta, in una scatola di legno a forma di libro. Non avvertiva che fosse una cosa macabra, perché lo amava e non si rassegnava a seppellirlo, relegandolo a mèro ricordo. Spesso pensava (non ripensava) a lui e si chiedeva dove fosse andato e se lo avrebbe mai più ritrovato. “Cenere sei, cenere tornerai”, così disse il prete anno dopo anno, finché un mercoledì di febbraio Davide capì che era ora di tentare una scelta.
Accadde l’anno successivo a quello in cui morì Josh. Il destino? Non rinunciare a poter decidere, pur sapendo che la scelta è stata già fatta.
In sintesi: comprendere di poter essere realmente liberi, anche all’interno di una gabbia circolare. Il destino non dovrà avere quelle caratteristiche coercitive che si attribuiscono al fato. Il destino vorrà dirigerci solo desiderando il nostro totale coinvolgimento, che avverrà quando accoglieremo come dei bambini le nostre vere inclinazioni.
La relazione esistente tra destino e volontà condusse Davide a riflettere sul rapporto uomo-Dio e Dio-uomo. Egli immaginò la nascita della volontà coincidente con il medesimo momento in cui il feto avverte (non può sottrarsi) la necessità di doversi fare strada per dirigersi verso la luce. Quel distacco è il primo gesto lacerante alla ricerca di una indipendenza dal Dio. Eppure, il feto si trova all’interno dell’Eden, in uno stato di assoluta perfezione, ma non è in grado, né lo sarà mai, di sottrarsi al proprio destino, che chiederà ausilio a quella stessa volontà nascente per trasformarlo in neonato, bambino, uomo. La volontà si renderà conto di sé, saprà di esserci, nell’istante in cui dinnanzi si presenterà un impedimento, un ostacolo, che dovrà oltrepassare o, quanto meno, aggirare credendo di averlo, infine, superato, piegato. Se così non fosse, anzi si trovasse ad avere a che fare con una barriera inaccessibile, la volontà morirebbe.
La volontà, il daimon, suggerisce alla nostra anima chi siamo e dove siamo destinati ad andare. La volontà è, e sarà, il miglior alleato del destino.
Con Sara, Davide non andava incontro a questi pensieri. Si rimaneva sul pratico e, certamente, più in superficie. Non era uno stupido. Ben presto aveva compreso che, per lo più, le ragazze apprezzano ciò che riflette alla luce senza ombre. Appena una settimana dopo il loro primo incontro, Sara e Davide si ritrovarono a passeggiare per le vie della città. Era un primo pomeriggio col sole soffocato da immobili nuvole grigie. Dall’altro lato del marciapiede dove stavano sostando c’era un grande bar torrefazione i cui addetti erano impegnati ad allestire una vetrina di Pasqua. A portata di mano vi erano delle ceste con uova, coniglietti e perfino galline di cioccolato. – Come ti piacciono le uova: fondente o al latte? – chiese Sara.
– Non sono un bambino… fondente, naturalmente.
– Ho deciso di regalarti un bell’uovo – disse Sara sorridendo.
– Grazie del pensiero… e io che devo regalarti?
– Niente, non ce ne sarà bisogno.
– Che intendi dire?
– Attraversiamo, dai. – Sara lo tirò per la manica del giubbotto di pelle.
Appena giunti di fronte alla vetrina, lei, guardandolo, approcciò una strana smorfia con la bocca. E come si rese conto che nessuno la osservava, dal che gli stessi fattorini erano talmente assorti da quel lavoro di allestimento, sottrasse dalla vetrina, ancora non del tutto a punto e aperta, due grosse uova e cominciò a correre come una pazza gridando:
– Dai scemo, che aspetti?
Davide rimase per un attimo senza parole. I fattorini si voltarono e guardarono, ma non si resero conto del furto fino al momento in cui Davide decise di iniziare a correre. Allora ci fu un accenno ad andargli dietro, ma i due ragazzi erano veloci, già distanti e non intenzionati a fermarsi.
Appena si percepì al sicuro, Sara rallentò la corsa e con le uova in mano si voltò verso Davide. Col fiato grosso che gli alterava la voce disse:
– Però, hanno rinunciato a inseguirci… non devono costare molto queste uova.
– Tu sei proprio matta – soffiò Davide, tenendosi la mano sul fianco, mentre il dito indice dell’altra era puntato contro di lei.
– Certamente. Matta è il mio secondo nome, non te n’eri ancora accorto? – Non uscirò più con te… tu sei pazza… folle!
– Come sei monotono, eppure non sembrava… Ti va un po’ di cioccolata?
Davide la guardò esterrefatto, fece un giro intorno a se stesso e poi scoppiò a ridere, e le disse: – Sono al latte!
– Accidenti, torniamo indietro che me le faccio cambiare.
Davide si fece vicino guardandola negli occhi e capì che doveva baciarla. Quella sera stessa si rifugiarono in un vecchio cinema e non guardarono il film.
Entrambi, nonostante i post adolescenziali atti di trasgressione, erano figli di una società improntata sulla disciplina e la loro leggera disobbedienza era nient’altro che il desiderio, o il tentativo puerile, di voler superare la barriera che li avrebbe condotti tra le braccia di una più razionale maturità. Davide stesso, dedicandosi in seguito all’insegnamento, non poté che rendersi conto di come i giovani d’oggi siano essenzialmente diversi da come loro erano stati. La società, attualmente, richiede e apprezza il successo, anche ottenuto con delle facile scorciatoie, perché quel che veramente importa è affermarsi. Avere denaro, popolarità, privilegi. Ciò che vale alla fine è l’apparire, che non è in grado di attuare un compromesso con l’essere, perché troppo spesso privo di contenuto. Per apparire, comunque, bisogna essere necessariamente pronti a tutto, anche a violare l’inviolabile: uccidere Dio.
Davide era cresciuto osservando i suoi genitori. Cosa aveva visto? Innanzitutto, oggi, ripensare ai genitori riconsegna alla sua memoria una frase di Goethe: “Siamo capaci di fare molti sacrifici nelle cose grandi, ma di rado siamo in grado di sacrificare le piccole”. I grandi gesti spesso possono essere frutto di un narcisismo anche patologico. Ecco, diversamente i suoi genitori erano sempre pronti a sacrificarsi, soprattutto nel quotidiano, ogni giorno e, naturalmente, ogni volta per il proprio figlio. Furono sempre grandi gesti in fondo, senza alcun vanto. Nonostante questo, per lui si trattò di un esempio da imitare e da evitare. Un pesante macigno che gravava sulle spalle. Questo uno dei tanti motivi che lo portarono a maturare un sentimento di avversione per la religione.
D’altra parte considerava il sacro una necessità interiore e, per questa sua nobile origine, ne aveva il massimo rispetto. Il sacrificio, secondo gli antichi, era il rituale col quale un bene profano diventava un dono dedicato agli dei. Un bene offerto per allontanarli o accattivarseli. Gli dèi dell’antichità erano da temere e da evitare; non da amare. Tornando ai suoi genitori, Davide riteneva che subissero fortemente l’influenza del cristianesimo nella sua manifestazione più autolesionista, appunto il sacrificio del Dio.
Gesù è il Dio che ama l’uomo e si fa uccidere per salvarlo. Le colpe dell’uomo sono, a parere del Creatore, così grandi che sarà necessario il sacrificio di un Dio. Gesù decide di immolarsi affinché il mondo si rinnovi secondo il proprio senso di giustizia. Nel modo che si è detto, Davide era giunto alla conclusione che l’amore non può essere un sentimento puro, ma dettato dalla volontà di vita che vuole vivere a ogni costo. Un artificio. “Il vero amore è una quiete accesa”, dichiarò un grande poeta. E, mentre ripensò a questo, si depresse nel desiderio di auto annientamento.
L’amore nutrito per Sara era una quiete accesa, nonostante non se ne rendesse conto. Quando in un rapporto di coppia uno dei due soffre, quello è il primo indice che qualcosa non va come dovrebbe andare, ma, al contrario, nel loro rapporto entrambi erano felici, complementari a se stessi. In Sara i livelli di autostima erano schizzati in aria dal momento in cui iniziò a frequentarlo, e questo la diceva lunga della considerazione che nutriva per lui. Per Davide Sara era la parte mancante, la zona d’ombra che aveva represso, nascosta dalla riflessione. Un sabato sera si divincolarono dalla compagnia dei loro amici a volte troppo invadenti e si rifugiarono in una pizzeria nel quartiere Parioli che, probabilmente per l’ora, appena le venti, era semi vuota. Ordinarono capricciosa e margherita. In un attimo, arrivarono: una focaccia, dei grissini e due bicchieri in vetro con della birra alla spina, in attesa che le pizze cuocessero.
– Sara, il tuo è un nome biblico, sai?
– Sì, ma i miei me lo hanno dato perché era il nome di una loro zia, della mamma per precisione, morta in giovane età.
– Mi dispiace.
– Che mi abbiano dato il nome di una morta o per la mia – prozia?
– Mi confondi. Mi spiace per tua “zia”, ovvio.
– Beh, se nemmeno ne sapevi l’esistenza fino a un attimo fa.
– Ok, non me ne frega niente.
– Bene. Che volevi dire sul mio nome? – chiese sgranocchiando un grissino.
– Nulla, siamo in un pizzeria… ci ho ripensato.
– Esistono, forse, cose che non si possono dire all’interno di una pizzeria? – domandò Sara, storcendo la bocca.
– Può darsi. Non è proprio così… è che hai rovinato la mia premessa.
– La tua premessa? E che stai cenando con un libro? Te la sei preparata la storiella per essere più fico?
– Che significa? Non ha senso quello che dici: è infantile, e poi stiamo già insieme, quella fase è superata.
– Va beh, allora dimmi!
– Dimmi?
– Parla… Devo risponderti in latino, così ti arriva finalmente?
Intanto arrivarono le pizze. Sara era affamata e fissava il piatto sperando che atterrasse velocemente sulla tavola. Davide chiese un’altra birra e, nel contempo, prosciugò quel bicchiere che stringeva nella mano. Appena il piatto di pizza gli fu poggiato davanti, il profumo penetrò nelle narici aumentandogli la salivazione. Si armò immediatamente di coltello e forchetta e ne tagliò avidamente un bel pezzo; sempre avidamente lo trangugiò, cosa che accadeva raramente.
Sara lo guardò sorridendo e, masticando con calma, chiese: – Allora, non mi vuoi… “ragguagliare” sul mio nome?
– Va bene. La Sara biblica, circa duemila anni prima della nascita di Cristo, sposò suo fratello.
– Interessante. Vedi, quando vuoi tiri fuori cose interessanti.
– Ok.
– No, no… davvero.
– Vuoi che continui?
– Sicuro, voglio vedere dove vuoi arrivare.
– Da nessuna parte, Sara. Comunque, zitta e ascolta: Sara è figlia di Tera, che nonostante il nome era uomo e padre anche di Abramo.
– Abramo, quello famoso della Bibbia?
– Proprio lui. Dicevo: Sara è la sorellastra di Abramo ed è più giovane di lui di quasi dieci anni. Era molto bella, tanto bella che Abramo, una volta che la ebbe sposata, cominciò a vivere angosciato dal timore che lo uccidessero per possederla.
– Insomma, la classica donna oggetto.
– Smettila… Sara. Abramo un giorno fu costretto a recarsi in Egitto e proprio per questo suo timore, tra l’altro fondato, fece credere alla corte del Faraone che Sara non fosse la moglie, ma la sorella. Il faraone sposò allora Sara. Quando il faraone, che aveva trattato con ogni onore Abramo proprio per il fatto che lo credeva il fratello di Sara, venne a scoprire la cosa, non la prese proprio per niente bene, allora Dio dovette intervenire. Dio gli apparve in sogno e lo minacciò che, se non avesse restituito Sara ad Abramo e non li avesse lasciati liberi di uscire dall’Egitto, lui e tutta la sua casa sarebbero morti.
– Insomma, è andata bene.
– Spiritosa.
– Cosa significa? – chiese Sara divertita.
– Nulla. Significa che io, al posto di Abramo, non avrei mai fatto passare Sara per mia sorella…
– Abramo avrà avuto le sue ragioni. Come vedi ha salvato capra e cavoli. Così si dice? Pensi di essere migliore di lui?
– No… no, affatto, intendevo un’altra cosa… per la verità.
– Hai uno strano modo per dirmi certe cose – rispose Sara, evitando di sollevare gli occhi dalla pizza che, nel frattempo, si era dimezzata.
– L’importante è che sai. A proposito: il vero nome di Sara era Sarai e Dio glielo cambiò in Sarah.
– E perché mai?
– Perché Sarah significa principessa e, poi, il nome di un uomo è importante, apre la strada al suo personale destino. Sarah soffriva per non aver avuto figli, era sterile. Dio le promise, quando aveva già 65 anni, che avrebbe partorito un figlio maschio e Sarah attese quell’evento fino a 90 anni.
– Aveva una gran fede in Dio.
– Certamente, ma anche una gran forza di volontà nel non rassegnarsi di fronte all’evidenza della realtà.
– Davide, sai dirmi perché mai Dio appare sempre in sogno a tutti questi “personaggi”, e non nella loro vita vera?
– Non è proprio così. Le visioni riportate nella Bibbia in cui appare Dio sono più numerose rispetto ai sogni. Le visioni sono visioni perché sei sveglio. Comunque, immagino che gli antichi facessero un po’ di confusione e che, per loro, anche il sogno fosse una sorta di realtà.
– Davide, pensi ci possa essere qualcosa dopo?– domandò Sara.
– Non lo so.
– Finalmente qualcosa che non sai… – si rallegrò Sara. – Quindi se tanto mi da tanto… Come Sarah avrò certamente un figlio?
– Non da me – rispose Davide.
Fu la prima volta che Sara rimase impietrita a guardarlo senza aver il coraggio di ribattere. Il suo era il solito modo di scherzare, e non riusciva proprio a capire il perché di quella risposta. Sara non desiderava nulla se non di essere ricambiata con una battuta divertente.
Davide a fatica cercò di far finta di nulla e timidamente riprese a discorrere del più e del meno. Terminarono la serata al cinema andando a vedere Un mondo perfetto.
Era estate, di sera. Il soffio leggero del vento si insinuava tra le labbra di Davide e Sara come a tentare di distoglierli dai loro intimi baci. Il cielo pulito lasciava brillare ogni stella che si era resa visibile. Una semplice nuda panchina e qualche albero intorno. La città ha i suoi rumori, il rumore del caos che nei tramonti estivi si assottiglia, cosicché riaffiorano quelli della natura, il canto tipico delle cicale, che altro non è che il richiamo del maschio che desidera l’attenzione della femmina.
Sara staccò dolcemente le labbra da Davide, che continuò a fissare quegli occhi grandi con le ciglia tese verso l’alto.
– Vorrei che tutto rimanesse così com’è! Almeno per un po’ – disse Sara, guardando le stelle.
– Vorrei essere il signore del tempo – rispose Davide.
– Che significa?
– Che se ogni cosa rimanesse così com’è, i nostri respiri si fermerebbero. Devo essere preparato.
– Era un modo di dire, il mio… un modo romantico. Stai rovinando tutto.
– Non è vero. Anche il mio modo era un voler dire dentro a questo momento. Stai guardando le stelle… Tu sei… il presente che crea il passato; perché quelle stelle non potrebbero mai esistere senza noi che le osserviamo.
– È romantico quello che dici.
– Forse, ma è una banale verità. Senza la vita che osserva non esisterebbe alcuna realtà. Se ne accorse un filosofo, Cartesio, che riteneva il mondo un’elaborazione del pensiero: “Possiamo dubitare di tutto tranne che del nostro pensiero”. Peccato immaginasse questo tuo corpo, che delicatamente tocco e bacio, come niente di più di una semplice macchina e così, lo stesso, ogni forma di vita esistente.
– Bell’ignorante… nemmeno mi conosceva!
– Quanto sei scema.
– Pensi troppo. Diciamo cose… anzi le dici tu… smisuratamente serie per essere così giovani, ma sarà per questo che andiamo d’accordo… tu pensi e io provo a non farti pensare.
– Sai qual è il bello, Sara? Che quando non siamo insieme… io penso a te e a nient’altro, magari non dovrei dirtelo.
– E perché mai? – domandò Sara.
Davide la fissò negli occhi lungamente e senza dire più nulla. Si alzò dalla panchina e tirandola per le braccia la portò verso di sé.
– Ti va di andare a provare quella nuova gelateria che ha aperto dietro l’angolo di casa tua?
– Va beh, ma non mi hai risposto.
E non le rispose. Durante il tragitto incontrarono dei loro amici e la serata divenne notte alta.
La luna calante se ne stava lì, in alto, fra le stelle, per chiunque provasse la sensazione di esserci, per gli innamorati, e per ogni creatura vivente apparentemente non pensante.
CAPITOLO II
Lucrezio
da De Rerum Natura
Non si può dire che alcuno avverta il tempo separato dal movimento delle cose
Davide era sdraiato supino. Il bilanciere saldo tra le mani tracciò un segmento di linea retta perpendicolare alla panca, scese fino a entrare in contatto con il torace, poi le braccia tornarono a spingere verso l’alto, facendogli ripercorrere la stessa esatta traiettoria; contro la gravità. Dietro alla panca piana, Marco era in piedi, deciso a intervenire se vi fosse stata qualsiasi incertezza, cosa che non successe. Sara era riuscita a convincere Davide a frequentare la sua stessa palestra, e lui, una volta persuaso, aveva preso seriamente anche questa nuova esperienza. Gli piaceva.
– Otto ripetizioni; non male con questo peso. Stai facendo progressi – disse Marco, dispensando a Davide una pacca sulla spalla.
– Grazie… adesso passiamo alla panca alta?
– Certamente.
– La scheda mi soddisfa molto, grazie! Ho l’impressione di essere diventato più tonico e forte. Dovrei, di sicuro, rafforzare anche gli addominali.
– Vedrai, tra un mesetto starai alla grande. Se avanzi del tempo, fatti una corsetta di trenta minuti un paio di volte a settimana.
– Ok.
“E’ simpatico Marco”, pensò Davide; un caso che fosse anche il fratello di Sara. D’un paio d’anni più grande, aveva un fisico asciutto e muscoloso, alto e moro.
La palestra era ubicata nei pressi di via Cola di Rienzo. Appena ottocento metri quadri, ben organizzati e distribuiti in un primo piano interno a un cortile di un palazzo di inizio Novecento. Ristrutturata di recente, i soffitti oltrepassavano di almeno una ventina di centimetri i tre metri. Le mura spesse e, in seguito, ben isolate acusticamente impedivano il propagarsi del fragore. In ogni caso, l’inquilinato ne tollerava la presenza ormai da vari anni.
Molti commercianti del posto la frequentavano insieme a professionisti e impiegati degli uffici pubblici o privati lì vicino.
Marco fin da bambino non nutriva grande interesse per lo studio, ma di sport ne aveva praticato tanto: nuoto, canottaggio, sollevamento pesi, per citarne alcuni. Alla fine si era appassionato all’emergente fitness. Il padre, giornalista sportivo, scommise sul futuro di Marco quando era appena un bambino di dieci anni. Un giorno decise di aprire una scuola di canottaggio sul lungotevere Flaminio, dove erano già presenti circoli sportivi storicamente importanti. Quando s’accorse che suo figlio non aveva la benché minima intenzione di sacrificarsi per quell’idea, cedette il circolo e reinvestì il denaro ricavato in un appartamento per il ragazzo, anche a voler rimarcare la delusione ricevuta. Per la verità, Marco non colse nemmeno lontanamente il senso del gesto. Non che fosse stupido, ma per un innato disinteresse verso ogni cosa che dovesse necessariamente leggersi sopra le righe. Assuefatto allo sforzo fisico, anche estremo, circoscritto, motivato, rimaneva, al contrario o giustamente, indifferente a elaborare concetti complessi. Semplice perdita di tempo. A stento era riuscito a conseguire la maturità tecnico commerciale, ma di fatto, conosceva ben poco sia di storia che di conti. Le competenze per essere un buon (e lo era) istruttore le aveva apprese nel corso degli anni, collezionando brevetti e diplomi, addirittura per discipline sportive difficoltose, come nella specialità del sollevamento pesi “strappo e slancio”. Naturale attitudine, probabilmente.
Il primo stipendio lo impiegò per comperare l’innovativo Motorola StarTAC. Curato nell’aspetto, indossava, usualmente, camicie bianche di una misura più piccola, di modo che i muscoli tentassero di lacerarne il tessuto. Le teneva aperte dal colletto fino a qualche bottone più in basso, affinché si potessero stimare i tiratissimi pettorali.
Capelli scuri, come quelli di Sara, perennemente fissi con effetto bagnato grazie a un gel francese che gli procurava una sua amica hostess di volo. Le ragazze, e non solo, impazzivano per lui, e per quel proprio modo d’essere le cose andavano a lui come attratte da qualche energia invisibile.
Tornando a Davide, il lavoro fisico, la fatica, erano essenziali; una occasione creativa per liberare quel suo mite, spesso celato ma presente, narcisismo. Un probabile attivo punto di partenza, dal quale originava il piacere nel fare. In palestra egli ambiva a liberare un nuovo Davide, più forte e perfetto rispetto al precedente.
Il senso di ciò? Il senso? Ma non fanno tutti così? Chi si pone domande riguardo al proprio consueto, ordinario e scontato comportamento? Che importanza potrebbe avere trovare una direzione di significato?
Anni prima, Davide provò a frequentare una palestra e a un ruvido istruttore di pesi chiese, molto timidamente: “ Da dove devo iniziare?”. Il tipo gli rispose con: “Al momento ho da fare e non posso darti retta. Ora, sei in ballo? Balla! Più tardi potrai chiedermi quello che vuoi”. Balla! Sì. Tutti balliamo senza domandarci perché. Ma, prima o poi, si approda al giorno in cui siamo costretti a rallentare e a porci “la domanda”. In quel momento inizierà, per molti di noi, la ricerca di una risposta da scovare in fretta e per lo più fittizia, provvisoria, ma rassicurante. Per altri ci sarà solo un’apertura di senso e una ricerca senza fine.
Una volta Sara confessò a Davide di aver letto che: “Chi non coglie il tempo dentro di sé non riuscirà mai a cogliere il tempo della vita”. E, al di là delle frasi fatte, sta tutto qui il senso della nostra vita? Se non ci muovessimo potremmo ricercare il senso? Intendo: se tutto fosse immobile, saremmo in grado di elaborare concetti? Il pensiero potrebbe orientarsi tra qualcosa che non fosse un passato e un futuro? O rimarrebbe fissato necessariamente in un eterno “accade ora”?
Cosa succede realmente all’interno della struttura della nostra autocoscienza? Il pensiero può contenere una certa staticità che gli consenta di operare tagli? Cos’è? Il contenitore di una moltitudine di idee, il cosiddetto Io? Capace di organizzare una successione continua e ordinata di attimi, paragonabili ai disgiunti singoli fotogrammi, come accade nelle ormai superate pellicole dei vecchi film?
Che pensare? Tempo e movimento, realtà indipendenti, ma legate tra loro da un tiranno? L’unico in grado di accogliere ambedue all’interno di un immutabile giro di fotogrammi che, nella propria fissità, ne determinano “l’azione”? Ogni nostra azione si orienta accordandosi alla freccia del tempo. E’ una necessità, non possiamo sfuggirla. Ogni ricordo si carica del carattere di realtà temporale, dinamica, mutevole. Il ricordo incede e attraverso noi diviene.
Ha ragione Sara: chi non coglie il tempo dentro di sé non può cogliere il tempo della vita; perché l’Io è il punto di riferimento di ogni nostro singolo, solitario pensiero, di ogni nostra idea. Un centro di attività cosciente che s’apre al mondo esterno e si riversa in quello interno.
Davide la vide entrare nella sala pesi. Sara: non alta, non bassa, non magra, non grassa. Indossava pantaloncini grigi aderenti e una canotta elasticizzata viola, che non arrivava all’ombelico. Quante cose può dire un ombelico? Quello di Sara, così incontaminato, perfetto, tirato, indifferenziato; tipico ombelico di una ragazza apparentemente e candidamente post adolescente, che non ha mai subito complicate variazioni di peso. Le altre parti anatomiche a Davide interessavano decisamente di più. È naturale.
– Ciao, che fai da queste parti?
– Sono curiosa di vederti in azione.
– Sei ottimista, oramai non mi rimane che da fare una bella doccia. Tu che programmi hai?
– Aerobica, naturalmente. Se te ne vai a fare la doccia, questa sala, per me, perderà qualsiasi tipo di interesse.
– Stai sfottendo?
– Sì.
– Ok, vado a fare la doccia e ci vediamo più tardi. Prima ti chiamo.
– Ehi, non me lo dai un bacio?
Davide, sfuggente e veloce, si allungò per baciarle le labbra e poi si recò nello spogliatoio. Sara continuò a seguirlo con gli occhi fino a che non oltrepassò la porta della sala, poi sorrise e si scrutò intorno in cerca del fratello. Marco se ne stava a parlare con una donna bionda più matura rispetto a lui. Dialogavano a voce molto bassa e animatamente, come se stessero discutendo e non desiderassero farsi sentire. Anche così si avvertiva quanto fossero attratti, e che, tra i due, vi era qualcosa di molto più intimo da non lasciar trapelare.
Sara si accostò di più, incuriosita e senza farsi notare, ma non fu in grado di ascoltare alcunché. A un certo punto, mentre Marco continuava a conversare, la bionda, indispettita, gli lanciò il proprio asciugamano da palestra sul torace, si girò sbuffando e uscì alla svelta dalla sala pesi, non rinunciando, però, a sculettare costretta nell’aderente pantaloncino nero elasticizzato.
Marco rimase immobile con lo sguardo inerme, stringendo in mano e con forza l’asciugamano griffato. Sara attese qualche istante e, poi, si avvicinò.
– Ciao! – disse a voce alta.
– Ciao Sara – rispose Marco, voltandosi verso di lei.
– Non è un po’ grandina per te? – chiese ironicamente Sara.
– Come? – trasalì Marco.
– Non dirmi che quella non era una disgustosa scenetta tra due innamorati.
– Ma che dici, se è sposata.
– Pure.
– Pure che? Se nemmeno la conosco – cercò di chiudere Marco.
– Sì, va beh.
– Uffa, sembra che sono io a cercarmele.
– Non dico questo, ma tu sei una vera calamita per i guai.
– Non ho fatto niente. Mi capitano delle situazioni che mi incasinano. Che posso farci? Ieri sera m’aspetta all’uscita dentro una Bmw cabrio, si avvicina e mi invita a salire in auto perché doveva parlarmi. In pochi minuti ci ritroviamo sulla Flaminia a tutta velocità, in direzione di Fiano. Mi dice: “Tranquillo! Ti porto a bere qualcosa a casa mia”. Mentre la guardavo guidare, mi veniva di ridere. Certe cose, finora, le avevo vissute solo nei film. Le chiedo: “Tuo marito sarà d’accordo?”. Mi risponde: “Mio marito è a Terni per lavoro e ne avrà per qualche giorno”. Rimango zitto. Non potevo certo scendere, correva come una pazza.
– Non mi dire.
– Sì, fai pure la spiritosa. Comunque, mi porta davanti a una villa disposta su tre livelli, apre il cancello automatico e sono dentro, in trappola. Sorridendo, mi attira in casa. Alla fine è capitato di tutto. Mai avuta una esperienza simile, puoi credermi.
– Risparmia i dettagli, porco. Ora qual è il problema?
– Il problema è che, per me, si è trattata di una tantum. E’ sposata, mi ha colto impreparato, debole, ma io non desidero casini. Lei è spregiudicata. E troppo per i miei gusti.
– Insomma, un po’ di buon senso lo hai mantenuto.
– Sì, certo. Stamattina, dopo il sesso, le ho detto che ci avrei pensato.
– Cosa? Stamani eri ancora con lei, a casa sua?
– Sì, ha un letto assurdo; ci si sta comodi in tre. Per non parlare della doccia e della vasca idromassaggio. Peccato che non sia roba sua.
– Sei un animale.
– Vorrei vedere fosse capitato a Davide.
– Non puoi essere mio fratello. Immagina se si dovesse lamentare in direzione, magari ti cacciano da qui.
– Stai delirando. Non comprendo perché la cosa debba finire in direzione. Poi, di che dovrebbe lamentarsi? Rispondi!
– Avrà almeno cinque anni più di te.
– Dieci, ma è una statua… credimi.
– Sai che me ne frega. Sono tua sorella, ti dovresti vergognare a raccontarmi certi dettagli.
– Sì, è vero. Proverò a confidarmi con Davide. Chissà perché parlo ancora con te?
– Vado a fare aerobica e non ti azzardare a dire niente a Davide di tutta questa storia. Lui non è come te.
– Allenati… è meglio. – chiuse il fratello.
Sara si allontanò imbestialita e fin troppo carica, giusta per un intenso sforzo aerobico. Accadde che, per tutto il tempo della lezione, ebbe la bionda mangia ragazzi proprio davanti a lei. Cercò di contenere quella gran voglia di allungarle un calcio o farsi sfuggire una gomitata. Stette tutta la durata della lezione a misurarla dettagliatamente, ponderando di non essere senz’altro da meno, e Davide, d’altra parte, era certamente e profondamente diverso da Marco. Le lancette hanno l’ovvietà di continuare a girare, e, se siamo fermi, il tempo scorre a una data velocità. Se ci muoviamo lo rallentiamo e, in tale modo, proviamo ad accogliere nei nostri spazi interiori il ricordo. Creiamo l’illusione illusoria che tale pratica possa persuaderlo a fermarsi. Sara, nei suoi rari momenti di sconforto, si chiedeva cosa Davide provasse per lei. Perché fosse così tanto attratto da lei. Un paio di anni erano trascorsi da quel primo incontro, stavano maturando insieme. Mancava solo qualche esame a Davide per laurearsi e lei si era decisa per infermieristica. Caratterialmente propendeva ad aiutare chiunque si trovasse in difficoltà, però, tra le tante cose che apprezzava in Davide, c’era il fatto che non avesse mai considerato di cercare protezione in lei. Ciò rendeva indiscutibilmente solido il loro rapporto. Questa peculiarità non è che una curiosità; ma, se Sara potesse scavare in sé stessa, emergerebbero altre e necessarie interpretazioni. Qualunque cosa occorra per poter far collimare il destino di due opposti individui sembra indirizzarci a escludere sistematicamente l’esistenza del caso.
Una mattina di primavera, nel momento in cui le margherite si schiudevano al sole nascente, e Marco non era riuscito a negarsi nuovamente alla biondina, e Davide dormiva le sue solite tre ore col libro adagiato sul petto; le lancette del tempo proseguivano il loro ininterrotto cammino.
Appena le sette e trenta, e già si era formata una colonna di macchine sulla via Salaria. Tanta gente dentro scatole che rilasciano fumo nell’aria. Tanta gente inquieta, in perenne lotta contro il tempo. La strada verso Monterotondo era sgombra, quella nella direzione di Roma–centro bloccata.
Un uomo grasso irrequieto si agitava dentro un furgone bianco. Colpevolmente in ritardo col giro delle consegne. Premeva il clacson disperato, come se quell’irritante frastuono potesse spalancargli un varco. Pensava: “ Forse c’è stato un incidente. Maledetti idioti, devo lavorare, io”.
I pensieri lo animavano dentro ancor più dell’impotenza per dover essere fermo lungo la strada, senza nessuna possibile alternativa. Alla fine decise la follia. L’uomo grasso alla guida del furgone bianco si spostò e invase la corsia opposta e con uno scatto veloce proseguì incrementando notevolmente la velocità del mezzo. Superò le auto rimaste regolarmente in fila.
Nella direzione opposta giungeva inconsapevole una ragazza in sella al suo motorino, e non poté far null’altro che schiantarsi frontalmente sul muso del furgone e, dopo un breve volo, urtare nuovamente, stavolta contro il parabrezza, per poi, infine, cadere a terra come fosse un sacco di patate. L’autista del furgone scese disperato, urlando: “Che ho fatto! Dio che ho fatto! Non lo volevo. Perdono. Dio mio!”.
La ragazza ebbe qualche contrazione muscolare e null’altro. Pochi istanti e ci fu sangue intorno a lei. C’era la disperazione e la partecipazione emotiva dei molti testimoni. C’era l’indifferenza di chi stizzito controllava l’orologio al polso perché avrebbe tardato agli impegni assunti.
Una macchina della polizia stradale si fermò, un poliziotto tentò di rianimare la ragazza. Trascorsero circa dodici minuti prima dell’arrivo dell’ambulanza dal più vicino ospedale. Dodici superflui minuti. Minuti concitati in cui la gente respirava intorno al corpo esanime di Sara, e Sara non c’era più.
Si usa dire “un fulmine a ciel sereno”. Sono molti i modi in cui è possibile designare un concetto e che rendono netta l’idea di quel che accade. È la realtà che erutta, trapela, e si rivela con tutta la propria cruente, disumana forza. Il dolore che l’accompagna è manifesto, è vero, e rimane vigile, deciso a rimescolare tutto, qualora e se mai si quieteranno le acque. Lo puoi con-tenere e puoi non con-dividerlo. E ti aspetterai, ogni volta, d’essere capito nella tua comprovata lacerazione. La realtà assume connotati così poco razionali. Quel che provi, quello sì, è reale.
Marco raggiunse a casa Davide e gli vomitò, a bruciapelo, la notizia. Davide rimase muto, chiuso. Marco pianse. Davide pensò: “Stasera non uscirò con Sara”. Si diresse verso la finestra e la spalancò, non immaginando che sarebbe entrato nella stanza il profumo dei boccioli in fiore, e quella inattesa via di fuga gli procurò più dolore ancora dentro il petto.
Davide si preparò in fretta, si morse la lingua con forza fino a sanguinare leggermente, pur di rimanere lucido. Uscirono dopo pochi minuti per recarsi all’ospedale di Monterotondo, ove giaceva il corpo di Sara. Davide pensò ai propri genitori, entrambi al lavoro in quell’esatto momento. Immaginò la circostanza in cui, quella stessa sera, avrebbe rivelato la notizia. Andavano pazzi per Sara. La disperazione sarebbe stata condivisa; non gli parve giusto. L’amava troppo.
Durante il tragitto ripensò al nonno, alle parole d’un vecchio: “In questo strano confine tra la vita e la morte, dove ora mi trovo, gli affetti: dai tuoi cari, agli amici, agli amori; questi affetti ritornano. Ed è come essere avvolti da una nebbia, irreale. Tutto è sogno”.
La vita di Davide era in una fase primaverile, eppure quel peso, che non faceva altro che colargli addosso, ne alimentava un rifiuto pari a quello per la morte.
In quattro salirono la breve scalinata per entrare nella chiesa, sulle loro spalle gravava una bara di acero bianco. Davide per la prima volta indossava un abito scuro. Se ne stava a fianco ai suoi genitori, di fronte ad essi quelli di Sara, apparentemente impassibili, con lo sguardo rivolto nel vuoto. Marco era accanto a loro, non piangeva, e se ne stava impettito come un guerriero battuto, ma dignitosamente. Il feretro venne posto di fronte all’altare e in un batter d’occhio fu sommerso di fiori. C’era folla: parenti, amici e conoscenti. Il sacerdote iniziò col rivolgersi prima ai genitori e poi a tutti i presenti. Così si aprì il rito.
Davide ascoltava, non partecipava, al contrario della maggior parte dei presenti, e non mostrava di fingere il muovere delle labbra che lascia intendere il tentativo di provare una sincera condivisione. Vi fu solo un attimo di lucidità, di presenza; accadde quando il sacerdote iniziò a proferire su Sara come fosse un intimo e caro amico:
– Perché proprio a Sara? C’è un senso? Ha un significato la morte di Sara? Di una ragazza così giovane? Ma Sara non può essere morta! Sara non si è mai allontanata da Dio, perché la morte è la distanza, il muro che ci separa dal Signore. Noi desideriamo essere artefici del nostro destino e per questo dimentichiamo spesso i comandamenti e lo stesso Vangelo. Perdiamo il senso della vita. Lo perdiamo ogni giorno nel nostro egoismo. Oggi siete qui, presenti in questa chiesa, per un momento di conforto, di distacco dal vostro dolore; è questo quel che volete. Sara sta partecipando a questa messa, è accanto a ognuno di voi, è accanto ai suoi genitori ed è riuscita a unire tutti voi presenti. Dentro di voi pesano pensieri di tristezza, di disperazione e lei, Sara, vi ha voluto qui, ora, per farvi uscire da questo luogo di culto diversi da come siete entrati.
A questo punto, Davide non resistette e si spostò verso l’uscita, giustificandosi con i suoi genitori per un sopraggiunto malore e l’immediato e necessario bisogno d’aria fresca per non svenire. Avrebbe desiderato prendere a pugni quel prete. Cosa ne sapeva lui di Sara? Di quanto fosse importante? Approfittava della situazione per portare acqua al proprio mulino.
La morte non esiste. E allora perché ti dicono “Ceneri eri e cenere tornerai?”. Quelle parole uccidono Sara. Uccidono ogni essere, anche Dio stesso.
Indugiò ancora un po’, prima di rientrare. Vide gli uomini dell’agenzia funebre sollevare nuovamente la bara e ruotare con essa, salda sulle spalle, di centottanta gradi, per poi dirigersi verso l’uscita principale. I genitori di lei, che ora piangevano, e lo stesso Marco, si erano disposti dietro a essa e, al suo seguito, i parenti. Davide si riunì ai suoi cari accodandosi, mentre alle spalle di lui si ritrovarono tutti gli amici e conoscenti.
I giorni seguenti furono estremamente ardui. Il dolore divenne più consapevole, più abissale. Cadde nello sconforto più profondo e intavolò dialoghi con Sara, la defunta. Conversava ogni qual volta si scopriva in solitudine. Le raccontava quel che non aveva avuto il coraggio di dire quand’era in vita. Non lo interrompeva più così spesso, come in passato. I vivi sono diversi, imprevedibili. Sara non sarebbe stata più inopinabile.
Seguirono i sogni per confondere la realtà, e i ricordi. Così giunsero nuovi ricordi e il passato allentò quella sua terribile caratteristica di accadimento risolutamente immutabile. La vita continuò. C’era da elaborare la tesi. Laurearsi.
La mattina si recava a correre a Villa Ada per almeno un paio d’ore, fino a stremare il cuore come dovesse esplodere; poi, esausto, si arrestava davanti al percorso attrezzato e si sfiniva con delle trazioni alla sbarra. Gli scoiattoli non riuscivano ad astrarre la sua attenzione, come anche il flebile odore dei fiori. Sara era lì, presente/assente. Una mattina si mise a piovere e dovette ripararsi tra gli alberi, consapevole che non fosse esattamente una sana idea. S’incamminò all’interno d’un sentiero coperto da fitta vegetazione, salendo per un po’. La pioggia si intrecciò ai pensieri e poi alle lacrime, alla fine crollò in ginocchio e affondò le mani nella terra. Così bagnata, morbida, oscura. Cominciò a scavare senza sosta, imbrattandosi prima la maglietta e poi i pantaloncini, i calzini e infine le scarpe; di seguito il viso e pure i capelli. Continuava a scavare, e non potendo smettere, iniziò anche a gridare, urlò allora più forte che potette. Si augurava che quel peso gravoso, fisso nel petto se ne andasse via come il grido lanciato nell’aria. Non era un animale, era condannato.
La pioggia prese a intensificarsi e finì per soffocare le grida.